Sono reduce dal “continente”, dove ho relazionato su Horcynus Orca in un convegno veneziano di comparatistica e su Quasimodo nel cinquantenario dalla morte presso la Biblioteca Nazionale di Roma: fatiche da ragazzino, non da uomo quasi canuto, ma – grazie a Dio – ce l’abbiamo fatta.
Esco, dunque, dagli argini della mia discrezione abituale, avvalendomi di questo eccezionale medium, per trasmettere – in attesa degli Atti dei convegni suddetti – agli amici, ai miei numerosissimi “scolari” dello scill’e cariddi, ai miei pochi ma buoni allievi e ai miei colleghi dell’Università di Messina (soprattutto a quelli che mi lodano più del dovuto, ma anche a quelli che muoiono d’ invidia), gli abstract dei miei due interventi suddetti. Aggiungo, per qualche lettore non addetto ai lavori, che, nella mia attività di critico non ho mai ripetuto, e non non ripeto, il già detto ma, secondo un mio acclarato costume, faccio sempre ricerca scientifica e aggiungo – credo di poter dire, senza iattanza – qualche piccola tessera di verità alla conoscenza della letteraturgiusepperando.ita: sono pagato per questo.
Ecco l’abstract della mia relazione veneziana.
Immaginario mediterraneo: Horcynus Orca (da Omero a Heidegger)
Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo porta chiaramente impresse dentro il suo sterminato corpo tracce considerevoli della narrativa e della cultura occidentale in termini di limpida, inesauribile intertestualità.
Un primo, fitto dialogo intertestuale si intreccia, sotto le righe, tra l’autore implicito di Horcinus Orca e l’autore implicito di Odissea: dialogo «concorde» (Segre), relativamente alla scelta dei luoghi (tra Scilla e Cariddi) in cui si svolge la storia narrata, all’ulissismo del protagonista, all’incantamento sessuale di Ciccina Circè – Circe, ai grecismi persistenti nel lessico di Horcynus Orca; dialogo «discorde» (Segre) per quanto attiene, in ispecie, alla conclusione del viaggio, che è euforica, ottimistica in Odissea e assolutamente disforica, pessimistica in Horcynus Orca.
Altrettanto perspicuo è il legame intertestuale tra il romanzo di D’Arrigo e alcuni romanzi odeporici del Cinque-Settecento, in ordine al nomadismo picaresco dei personaggi orcinusi, che sono – secondo la norma del picarismo – di bassa estrazione sociale e abbandonati a sé stessi in un mondo divenuto ostile (in seguito all’avvento del fascismo e alla «puttana guerra»), nonché costretti a compiere azioni riprovevoli (come, in particolare, comprare e mangiare la carne della fera) per sopravvivere, riconoscendosi impotenti a frenare la corruzione generale della società.
Assai interessante si rivela, peraltro, il dialogo tra gli autori impliciti di Horcynus Orca, di Moby Dick e di Ulysses.
Chiaramente «concorde» appare inoltre il dialogo intertestuale tra Horcynus Orca e I Malavoglia sul piano stilistico-linguistico, per la forte caratura verghiana della mescidazione di lingua e dialetto messa in atto da Stefano D’Arrigo, il quale, procedendo sulla strada inaugurata dal grande catanese, arricchisce il siciliano italianizzato di inedite risonanze, amplificandone la già vasta portata lessicale. Ma il dialogo tra i due autori impliciti è «discorde» sul piano ideologico, ove si consideri che non già il darwnismo “progressivo” dei Malavoglia attraversa i Horcynus Orca bensì altra, più pessimistica visione del mondo.
Evidenti legami intertestuali connettono, difatti, per transcodifica, il romanzo darrighiano alla filosofia antimetafisica del Novecento e, segnatamente, ad Heidegger, per la Weltanschauung nichilistica che vi è sottesa, ancorché sapientemente dissimulata nel testo, ma percepibile d’abord nell’innesto – tra le righe – di una famosa (e finora ignorata) locuzione heideggeriana: inequivocabile stemma dell’opzione autoriale, invero.
Un «dialogo» radicalmente «discorde» è ipotizzabile, infine, tra Horcynus Orca (uscito nel 1975) e l’opera in versi e in prosa di Pier Paolo Pasolini, che una funzione salvifica attribuiva al mondo agropastorale, preindustriale (in alternativa all’«omologazione culturale» imposta dalla borghesia dominante, in Italia, negli anni del boom economico), laddove i pescatori dello «scill’e cariddi» e la cultura preindustriale sono le vittime prime e irredimibili del potere omologante del vecchio fascismo e del neo capitalismo di stampo americano.
Ed ecco l’abstract della mia relazione romana.
Dopo la catastrofe: Quasimodo tra letteratura e giornalismo
Siamo oggi, forse, nella condizione ideale per guardare, con animo scevro da risentimenti e preconcetti ideologici o estetici, alla produzione postbellica del grande poeta siciliano, riprendendo idealmente il testimone offertoci da Carlo Bo, il critico più acuto e sereno di tutti quelli che si sono occupati della poesia di Quasimodo e del cosiddetto «secondo Quasimodo», in ispecie.
Certo, la poesia postbellica di Quasimodo è emblematica del travaglio di una generazione e dei suoi tentativi di riallacciare, come Pasolini e su versanti diversi da quelli di Pasolini, i fili, interrotti da secoli, della poesia civile – nel Discorso sopra la poesia del 1953, il siciliano la fa risalire a Dante – con le istanze della cultura progressista, “di sinistra”. Non dovrebbero esserci oramai dubbi, peraltro, sul fatto che il percorso del poeta siciliano sia perfettamente coerente e che la distinzione di un «primo» e di un «secondo» Quasimodo sia solo indicativa e semplificativa dello svolgimento nel tempo, della diacronia cioè, di una vocazione poetica sicura e ininterrotta.
Sintetizzando una problematica che ha impegnato – e impegna ancora – gli studiosi, si direbbe che la parola quasimodiana, dopo avere attinto vertici assoluti di perfezione formale, patenti nella silloge Ed è subito sera (1942) che conclude il primo tempo (ermetico) del poeta, tenda naturalmente, sotto la sollecitazione delle atroci vicende del tempo storico, a ripiegare verso rapporti interumani più accessibili e non illusori, basati su una semantica meno ambigua e più scopertamente votata alla comunicazione con gli altri uomini. In altri termini, il passaggio dall’io (della prima fase) al noi (della successiva produzione), e quindi dalla lirica all’epica va considerato come una conquista: avviene per maturazione interna del poeta, non per una qualche scissione, che sarebbe innaturale, schizofrenica, dell’io. Non va, peraltro, dimenticato che «Quasimodo […] sin da principio fu uno dei più chiari e immediati» (Carlo Bo).
E a noi, fatta la tara del più e del meno, sembra di potere dire che il «secondo Quasimodo», senza tradire o rinnegare il «primo», sia riuscito a dare cittadinanza poetica – spesso alta cittadinanza – ai problemi posti dal ritorno del Paese alla vita democratica, affidando ai suoi versi, anche discorsivi ma sempre intrisi di interna, assoluta, congenita melodia, messaggi civili di luminosa intensità. E va pure detto che continuava a risuonare, nel dopoguerra, la corda amorosa della poesia di Quasimodo, insieme con quella religiosa e con quella degli affetti familiari, all’insegna di una perfetta coerenza di stile e di contenuti, peraltro.
Contemporaneamente Q. si dedicava con passione alla sua attività di professore (nel 1940, era stato nominato, «per chiara fama», professore di Letteratura Italiana presso il Conservatorio di Musica di Milano), di critico d’arte, di giornalista.
Intensa e molto fruttuosa era altresì la sua attività di traduttore, che già nel 1940 aveva dato alle stampe, per le Edizioni di Corrente, la scandalosa (per il mondo accademico) ma felicissima e fortunatissima traduzione dei Lirici greci con la prefazione di Luciano Anceschi: subito dopo la Liberazione, nel 1945 vennero pubblicate le traduzioni quasimodiane del Vangelo secondo Giovanni, di alcuni Canti di Catullo e di brani dell’Odissea. Nel 1946 fu pubblicata la traduzione dell’Edipo re di Sofocle, cui seguirono numerose traduzioni di classici e moderni, tra cui Shakespeare, Eschilo, Euripide, Tudor Arghezi, Neruda, Molière, Cummings,, Aiken, Lecomte …
Come critico teatrale, intanto, Quasimodo collaborava fino al 1950 col settimanale «Omnibus» e quindi dal 1950 al 1959, col settimanale «Tempo». Gli articoli relativi sono stati pubblicati, a cura del figlio Alessandro, con il titolo Scritti sul teatro.
Come critico e professore di Letteratura Italiana Quasimodo pubblicava inoltre le antologie: Lirici minori del XIII e XIV secolo(1941), Lirica d’amore italiana (1957), Poesia italiana del dopoguerra (1958), il volume Il poeta e il politico e altri saggi (1960) e, postumo, il saggio su Leonida di Taranto (1968)
Particolarmente significative sono, nel dopoguerra, le due collaborazioni del grande siciliano col settimanale «Le Ore» dal 1960 al 1964 e col settimanale «Tempo» dal 1964 al 1968, anno della sua scomparsa. Tutti gli articoli sono stati raccolti, con la mia collaborazione e per mia intuizione, in due corposi volumi, “Il falso e il vero verde” «Le Ore» 1960-1964 (Edizioni di Sinestesie, Napoli 2015) e “Colloqui” «Tempo» 1964-1968 (L’arca e l’arco, Nola 2013), a cura di Carlangelo Mauro.
La pubblicazione di tutti gli scritti giornalistici di Salvatore Quasimodo colma, invero, una lacuna effettiva degli studi di letteratura italiana del Novecento, costituendo peraltro il felice esito dell’incontro e della collaborazione tra dipartimenti di Università diverse (Messina – Napoli) e istituzioni socio-culturali presenti sul territorio (il Parco Quasimodo di Roccalumera, nella fattispecie)
Della funzione conoscitiva ed euristica degli scritti giornalistici di grandi scrittori del Novecento, rapportabili di fatto, per ricchezza d’informazione, agli epistolari dei poeti ottocenteschi, nessuno oggi dubita , epperò non si può non esprimere il rammarico per il ritardo (più di quarant’anni) della pubblicazione, spiegabile solo (ma non giustificabile) con «il calo d’interesse [ …] sulla personalità e sull’opera di Salvatore Quasimodo», che data, paradossalmente, dalla ‘laurea’ del premio Nobel, nel 1959, e si prolunga fino ai nostri giorni.
Ma per una «singolare eterogenesi dei fini», è proprio la pubblicazione degli scritti giornalistici che consente di far luce sulla causa profonda «del prolungato appannamento del poeta» nella letteratura e nella cultura italiana del Novecento.
Difatti, sulla base di una vasta, capillare indagine sui molteplici temi (politici, letterari, etici, religiosi, sociali) e sulle forme giornalistiche (non del tutto immemori di modalità poetiche) della collaborazione di Quasimodo a «Tempo», a me è parso di potere individuare nella diffusione in Italia, negli anni Sessanta, della cultura del postmoderno la radice primaria (al di là delle motivazioni politico-ideologiche) della disaffezione a un poeta moderno che, nutrito di solide certezze, di alte idealità, di grande rigore etico e religioso, si veniva a scontrare inevitabilmente col relativismo etico e gnoseologico del postmoderno appunto e con i suoi portati diretti: la predilezione del gioco, del comico, dell’ironia, del rifacimento, della citazione, del travestimento ecc. .
E ciò, nonostante l’appello ai valori oggettivi della sua poesia, formulato a più riprese da critici dello spessore di Carlo Bo. C’è però da sperare che, «dopo gli sciali e gli scempi del postmoderno», evidenziati dal New Realism di Ferraris, Searle, Eco, si possa presto tornare a leggere e a riassaporare come merita, soprattutto dai giovani, la poesia di Quasimodo.