Caro Professore, da qualche tempo noi di Messinaweb vorremmo intervistarla a trecentosessanta gradi, perché intuiamo che lei abbia mille cose da dire sulla città di Messina, sulla Sicilia, sull’Italia, sull’Europa, sul Mondo insomma, ma anche sul mondo interiore di quel mistero che è l’essere umano. Vorremmo, in parole povere, oltrepassare, insieme con lei, il velo della discrezione signorile che lei, forse per amore del prossimo o forse per autodifesa, mostra di avere sollevato tra sé e gli altri.

 

La ringrazio. Ma forse lei mi gratifica di virtù che non ho. Le cose che avevo da dire le ho dette e le vado dicendo in libri e articoli giornalistici, o attraverso i cosiddetti social. Certo, a Messina non ci sono tutte le opportunità editoriali o giornalistiche esistenti a Milano, ma siamo qua e non possiamo essere contemporaneamente altrove: come diceva realisticamente mio nonno, pescatore dello Stretto, «Ccà semu e ccà calamu (le reti, ovviamente)». È vero tuttavia che, per discrezione e senso innato – credo – della misura, non ho mai spinto troppo il piede sull’acceleratore della rabbia, dell’invettiva e, men che mai, dell’insulto, che è oggi tipico della comunicazione giornalistica e non solo.

 

Ecco. Noi vorremmo, appunto, che lei andasse, una tantum, oltre. Potremmo incominciare dal suo parere sulla recente pubblicazione delle Poesie e prose siciliane di Maria Costa, per i tipi di Pungitopo di Gioiosa Marea.

 

Plaudo, certamente, all’iniziativa che io stesso, da cultore della poesia di Maria Costa, andavo caldeggiando da qualche anno, prima e dopo la scomparsa della poetessa. È una lodevolissima iniziativa personale dell’editore di Pungitopo, Lucio Falcone, opportunamente avallata dal Comitato Direttivo del Centro Studi Maria Costa, di cui è presidente il dott. Lillo Alessandro. Ora, sono finalmente contenute in un unico, degno volume, limpidamente stampato a cura dello stesso Falcone, con una introduzione di Sergio Todesco e una piccola prefazione mia, tutte le poesie e i racconti («cunti») siciliani pubblicati, in svariate raccolte, dalla poetessa di Case basse, e praticamente introvabili nelle librerie. Sicché il lettore messinese (e non solo messinese) ha oggi la possibilità di accostarsi, senza difficoltà, alla poesia di Maria Costa, che è – occorre ribadirlo – un vero, imperituro monumento della lingua e dei valori dei pescatori dello Stretto, alternativi al degrado della cultura postmoderna e risolti in forme stilistiche di inusitata bellezza.

 

Quasi un miracolo, dunque.

Si, un miracolo, ove si pensi, per un attimo, alla tendenza abituale degli intellettuali messinesi a dividersi in gruppi «l’un contro l’altro armato», magari per futili motivi, seguendo, perlopiù, le ubbie di un capo improvvisato o di una altezzosa primadonna.

 

Da dove nasce, secondo lei, professore, questa tendenza dispersiva, separatistica?

 

Ci sono cause e concause storiche su cui altri hanno già detto egregiamente. Di conseguenza, ci sono comportamenti umani, conformi al degrado storico, politico, sociale cui la città soggiace da molti lustri. Ogni cosa va sempre contestualizzata e storicizzata: «Il fico non fa pesche».

 

Professore, noi giornalisti on line o della carta stampata abbiamo spesso l’impressione che l’Università di Messina sia un poco distante dai fenomeni culturali della città. La nostra impressione è vera o fallace?

 

Vera, in gran parte. Ma vorrei rinviare lei e i suoi lettori a consultare, nel merito, il mio recente libro Resistere a Messina. Reportage, lettere, racconti e saggi critici (Pellegrini Editore, Cosenza 2020). Uno dei percorsi di lettura, tra i tanti possibili, che vi si delineano, riguarda proprio l’indagine sull’Università italiana (e quindi anche messinese) tra la prima e la seconda repubblica fino a i nostri giorni: c’è tutto il mio amore per l’Università dei veri Maestri, della seria ricerca scientifica, della meritocrazia e della trasparenza, ma c’è anche il mio sguardo vigile, rigoroso, e tuttavia costruttivo, su certe manchevolezze del sistema. In breve, se la città di Messina dorme, l’Università di Messina non veglia: accanto a evidenti sintomi di risveglio, di rinnovamento, di impegno reale e proficuo nella dirigenza e nel corpo docente, permangono purtroppo sacche di albagia sterile, nonché casi d’incompetenza e di arretratezza politica e culturale (spesso legate a fenomeni di familismo deteriore). Pensi: si trascura ciò che è vicino (la realtà storica, letteraria, politica, sociale del territorio) e si adora il lontano, l’esotico, secondo un’arcaica concezione dell’Università. Laddove, la moderna epistemologia, in tutti i rami del sapere, si muove – non da oggi – in senso inverso: dal vicino al lontano.

 

Ma, a proposito degli spropositi, noi giornalisti abbiamo la sensazione che l’Università di Messina non sempre valorizzi adeguatamente i suoi campioni – lei è tra questi – e che invece salgono, spesso, alla ribalta della cronaca professori amorfi, senza particolari meriti. Come si spiega?

 

Potrei dire che io vengo dal mare, ma sarebbe troppo lunga. Spero di cavarmela con una battuta, desunta dall’immaginario religioso: «O si canta o si porta la croce». C’è, in effetti, chi nell’Università studia, fa ricerca e produce libri innovativi (io, col suo permesso, sono tra questi); e c’è chi studia per avere potere e cattedre da distribuire a parenti ed amanti. È questo il prototipo più diffuso, in tutta Italia, di dirigente universitario. Qualcuno l’ho conosciuto anch’io. Ci sono, fortunatamente eccezioni: io ricordo, in particolare, Antonio Mazzarino e Giuseppe Petronio, due studiosi eccellenti (di diverso orientamento politico) ma anche due eccellenti presidi.

 

Illuminante. E come è cambiata, secondo lei, la realtà politica, sociale, religiosa di Messina in questi ultimi anni?

Ci vorrebbe un trattato, anzi tre o quattro trattati per rispondere adeguatamente alle domande che mi pone. Ma, da estroverso naturale (forse di origine normanna), non mi sottraggo al dialogo. D’altra parte, sono – forse per natura (normanna) – ottimista nonostante tutto (partito dalle barche del Faro, «passai u mari chi zocculi» per realizzarmi) e vedo sempre il bicchiere mezzo pieno, perciò piango (con un occhio) sullo scempio della nostra città a tutti i livelli, ma intravedo anche fenomeni positivi che fanno sperare in una crescita non chimerica. Però, badi bene, io non ho, né presumo di avere, la verità in tasca. In altri termini, quel poco che so sulla realtà messinese dipende dalle mia esperienza diretta (che è sempre limitata), dalle mie parziali conoscenze, dal mio temperamento umano (forse, troppo umano) e dalla mia ideologia di intellettuale democratico di sinistra: consideri lei quanto sia condizionato il mio parere. E ciò dico, per evitare che qualcuno mi prenda troppo sul serio: ogni parere è un punto di vista, inevitabilmente condizionato dalla posizione ideologica e/o dal temperamento dell’emittenza.

 

D’accordo, La ringrazio per questa dichiarazione di umiltà che dovrebbero fare tutti quelli che riempiono i programmi televisivi e le pagine dei giornaloni. Ma ci dica, dunque, per favore, qual è il suo punto di vista in merito alle cose messinesi.

 

Da sociologo improvvisato, dividerò i miei concittadini per fasce di età. Credo , dunque, di capire che la parte più fragile e friabile della società messinese sia quella costituita dai quaranta-cinquantenni (la parte maggioritaria dell’elettorato), cresciuti nell’ultima bambagia democristiana (da padri e madri che invece hanno lottato coi denti per vincere la loro battaglia per la vita): mostrano talora tratti psicologici infantili e comportamenti perlopiù egotistici; si rivelano spesso immaturi sul terreno complesso della politica e sono pronti a “innamorarsi” dell’imbonitore di turno che promette cieli in terra. Certo, la maggior parte dei quaranta-cinquantenni che conosco, per esperienza diretta o mediata da film, romanzi, giornali, televisione, Facebook ecc., “tifa” per i Cinquestelle o per Salvini-Meloni.

 

E dei loro padri e madri, dei settantenni insomma, che gliene pare?

 

Dei settantenni che conosco, solo pochi stravedono per i Cinquestelle esibendo un radicale, forse illusorio, entusiasmo antipolitico, magari come estrema reazione a frustrazioni subite dalla politica (anche di sinistra) nel corso della loro lunga vita e mal digerite. Nessuno di loro mostra di simpatizzare per le posizioni salviniano-meloniane. Molti messinesi di questa fascia d’età si dichiarano berlusconiani. Mi pare che resistono pochi, ma buoni, democratici di sinistra.

 

Dei nostri giovani, in particolare, cosa pensa lei, che ha dedicato una vita alla trasmissione di saperi e valori ai giovani, e che è amato – ne riceviamo attestati ogni giorno presso il nostro giornale – dai suoi allievi, molti dei quali sono oggi affermati professionisti?

 

I trentenni sono simili ai loro fratelli maggiori (quaranta-cinquantenni). I ventenni mi sembrano, paradossalmente, migliori dei loro fratelli maggiori e dei loro padri (forse, è l’eterno gioco dei figli che uccidono freudianamente i padri, per diventare padri a loro volta). Certo, pare che vadano riscoprendo il valore assoluto della democrazia e dell’impegno concreto, fattivo sul terreno politico, rifuggendo da ogni sirena populistica o superomistica, anche se la propaganda neofascista e addirittura neoborbonica giunge, a Messina, perfino nelle aule della scuola media. Su di loro incombe tuttavia il peso di un’economia in dissesto, che li spinge a emigrare alla ricerca di un posto di lavoro o a vivacchiare nelle case paterne, come tardivi «bambocci», senza arte né parte. Spetta all’amministrazione comunale e ai rappresentanti della politica locale e nazionale il difficile compito di sanare questo oggettivo disastro generazionale, che sta privando la città (una delle più spopolate del meridione, in effetti) delle sue forze migliori.

Va anche detto che i nostri giovani sono insidiati dal dilagante nichilismo (passivo) e dall’edonismo facile del «carpe diem»: a Messina pare sia attecchita, da qualche tempo, la mala pianta della droga con tutti i fenomeni delittuosi che ne conseguono, mentre aumentano purtroppo i casi di violenza contro i deboli e le donne, che sono tragiche spie di una società gravemente malata.

 

Lei ha fatto interventi molto illuminanti sulla «rivoluzione cristiana» di Papa Francesco. Come vede la presenza dei cristiani nella società messinese?

 

Mi faccia dire che le principali agenzie educative – casa, scuola, associazioni sportive, associazioni religiose, enti culturali – devono farsi carico di nuove forme di educazione culturale, civile, democratica che aiutino i giovani nel loro difficile percorso di crescita: non si supera mai, da soli, il più alto gradino dello sviluppo, quello cioè che ritarda o impedisce il passaggio dalle vaghezze dell’adolescenza all’incipiente (mai esaurita) maturità. Paradossalmente, l’ideologia dominante esalta, al contrario, il modello, fortemente regressivo, di Peter Pan e il mito dell’eterna adolescenza come un valore assoluto.

In questo ambito, una funzione specifica esercita – o dovrebbe esercitare – sicuramente la Chiesa. Ma devo dire, sempre sulla base della mia parziale esperienza, che a Messina, mentre cresce il numero dei fedeli (maschi e femmine) che affollano le chiese – quando io ero ragazzo, le chiese erano zeppe di vecchie, di signore, e di ragazze (fortunatamente), mentre gli uomini, per un malinteso orgoglio maschilista, evitavano persino di entrare in una chiesa –, sembra crescere altresì il numero dei cattolici che contestano, da destra, la svolta pauperistica, cristiana di Papa Francesco, restando chiaramente  legati ai modi curiali, aristocratici della chiesa pregiovannea, propagandati da certi porporati con attico sul Colosseo, che sono tra i principali responsabili della scristianizzazione in atto nella società.

Fortunatamente, a Messina c’è una nuova fioritura di preti «da strada e non da salotto», per dirla con Papa Francesco, che rinnovano il messaggio fondamentale dell’amore cristiano per gli umili, i poveri, gli emarginati, i malati, i carcerati (vedi Matteo 25, 31-46), recuperando alle vie della fede operosa molti giovani. E mi fermo qui, sennò mi fanno papa.

 

Bellissimo. E della politica …

 

No, basta, scusi. Organizzi piuttosto un convegno o alcuni convegni e parleremo, insieme con altri intellettuali messinesi (che non mancano), di politica, di arte, di poesia, di pittura, di scrittura, di economia a Messina. E intanto – mi consenta – legga e faccia leggere il mio libro Resistere a Messina. Garantisco: non sono soldi né tempo persi.

 

 

Ringrazio il prof. Giuseppe Rando per l’intervista che ha voluto generosamente concedere alla nostra testata: ne siamo orgogliosi e speriamo che possa contribuire alla crescita umana, politica e culturale dei nostri concittadini e dei giovani soprattutto.

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