IN MARGINE

 

 

Mi sto deliziando con la lettura di “Non parlo di me” di Luigi Pirandello, che è un’insolita trattazione del mistero e della necessità – per taluni – dell’espressione artistica: un invito a nozze per uno, come me, che ha codificato la massima post cartesiana e, a suo modo, nietzschiana (se non heideggeriana): «Mi esprimo, dunque sono».

E uno, in particolare, dei tanti pensieri del genio agrigentino, disseminati in quest’opera, vorrei proporre agli amici e poeti messinesi, con cui mi capita, sempre più spesso, in questi ultimi tempi, di dialogare sulla poesia, per l’appunto.

Ma prima vorrei aprire una parentesi sull’occasione che ha propiziato la mia lettura di questo, singolare pamphlet di Pirandello, di cui avevo perso le tracce: me lo ha prestato l’amico Paolo Piccione (l’ex Presidente dell’Ars) in cambio della “Biografia del figlio cambiato”, sempre di Pirandello, che io, a mia volta, gli prestavo. Vorrei, però, si pensasse, per un momento, alla singolarità, bellezza e positività di questo scambio di … prestiti librari tra due liberi intellettuali messinesi, provenienti dalle barche di Torre faro:

– Pippo, vorrei leggere la “Biografia del figlio cambiato” di Luigi Pirandello, ce l’hai a portata di mano?

– Certo! Paolo, vado a prendertelo. Dove ci vediamo?

– Al bar Doddis, tra mezz’ora: ce la fai? Io ti porto “Non parlo di me” di Luigi Pirandello, se non ce l’hai: è stato stampato da Sellerio in un numero limitato di copie su carta Rosaspina.

– Non ce l’ho. Bene.

Parentesi nella parentesi. Un dialogo e un rapporto siffatti – mi si lasci dire – sono pressoché impensabili nell’Università dove, nonostante la “riforma europea”, l’assillo di asfittiche conoscenze specialistiche e i miti di carriera, con inevitabili strascichi paranoidi e/o megalomaniaci, inibiscono di fatto il dialogo culturale tra pari. Eppure la vera cultura è trasmissione di cultura. Chiuse parentesi.

Ecco, dunque, il testo di Pirandello che vorrei proporre ai miei valorosi amici-poeti di Messina:

 

È stata una delusione enorme […] scoprire che il nostro linguaggio segreto, a metterlo in carta, oh Dio, […] non significa più nulla, non fa apparire nulla di ciò che credevamo di poter esprimere attraverso di esso; non solo nessuno lo capirebbe, ma ora ci dà la coscienza che noi, con questo linguaggio […], siamo soli […], terribilmente lontani da tutti, e che tutto quello che potremo fare per accostarci sarà di scioglierlo, a poco a poco. Allentare certe strette di sensi che renderebbero incomprensibili le nostre parole e i nessi con cui per noi le teniamo, rinunziare ai significati diretti evidenti solo per noi, imparare a diffidare dell’espressione pronta […].

 

Vogliamo fare, una di queste sere, un seminario extra moenia?

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