Nel duecentesimo anniversario de L’infinito: dal «colle» di Recanati all’«immensità» dell’essere (senza paraocchi).
È arcinoto che il testo e il contesto sono uniti da un nesso indissolubile e che, per converso, nessuna opera d’arte possa risolversi – a dispetto delle presunte certezze di tutti i formalisti – sul piano dell’autoreferenzialità. Donde, l’importanza, o meglio la necessità inderogabile, a prescindere dai punti di vista ideologici e /o estetici, di indagare sul contesto in cui un’opera si è prodotta, per tentare di coglierne, con maggiore probabilità, il senso e il valore. Epperò, allo studioso di Leopardi che si accosta al testo inquietante, polisenso quant’altri mai, dell’Infinito viene fatto di chiedersi, preliminarmente, che cosa scrivesse e, quindi, che cosa pensasse, nel 1819, il genio di Recanati nei mesi o nei giorni che precedettero la composizione dell’idillio e che, quindi, non può non avere avuto una qualche incidenza sulla composizione dello stesso.
Orbene, sappiamo che, in quel breve lasso di tempo, Leopardi scriveva e/o abbozzava un gran numero di opere e, in particolare, tra il marzo e l’aprile, le due rivoluzionarie «canzoni censurate», il secondo degli Argomenti di idilli (probabilmente nel giugno) e il pensiero di Zibaldone, 50-51, risalente «con molta probabilità all’aprile del ’19», secondo Pacella[1], nonché gli abbozzi degli Inni cristiani, non rigidamente papalini (nell’estate), e nell’estate-autunno dello stesso anno, il clamoroso abbozzo di Telesilla. È pressoché inutile ricordare che, durante questa straordinaria fase creativa, proprio «nel periodo primavera-autunno» di quel fenomenale ’19, Leopardi componeva, secondo Ghidetti[2], L’infinito, e sempre nel ’19, Alla luna.
Ma, come lo scrivente ha avuto modo di verificare in un suo saggio recente,[3] il giovane Leopardi, mentre poneva mano con entusiasmo a queste e ad altre opere, cambiava radicalmente la sua visione del mondo (o, se si vuole, la ricca fioritura di tali opere era conseguente a una sua mutata visione del mondo), ch’era stata, fino a qualche mese prima, imperniata sul classicismo antiromantico in letteratura (codificato nella Lettera ai signori compilatori della Biblioteca Italiana del 1816 e nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica del 1818), sul conservatorismo papalino, austriacante e antifrancese in politica (attestato, se non altro, dall’orazione Agl’Italiani del 1815), sul cattolicesimo antilluministico in filosofia (evidente nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi del 1815). Ne derivavano, per lui, steccati alti e insormontabili – dati, in casa, come assoluti – tra la poetica dei classici e quella degli odiati romantici («schifosissima materia» era, per lui, la poesia romantica in un passo del Discorso di un italiano)[4], nonché ostacoli immani, di presunto ordine etico (accompagnati da profondi sensi di colpa), di fronte alla possibilità di vivere fuori dai canoni della rigida morale cattolica (si pensi alla cantica L’appressamento della morte del 1816).
Alla luce, dunque, di tali, oggettivi dati testuali risalta chiaramente, da un lato, una radicale svolta nella vita e nell’opera di Leopardi, molto più profonda e concreta di quanto non faccia immaginare la famosa «conversione filosofica» e, dall’altro, la coscienza netta, da parte del poeta, del salutare crollo, in quel 1819, degli ostacoli letterari, filosofici, religiosi – dati come insormontabili nella cultura paterna –, che lo tenevano lontano dalla modernità e dalla realtà, insieme con uno stato di entusiasmo intellettuale e creativo notevolissimo, non disgiunto, peraltro, da un certo scoramento: «divenni filosofo», dichiara in un pensiero dello Zibaldone del 2 luglio 1820, nel quale sembra fare un consuntivo della sua esperienza “romantica”[5].
Una situazione pre-nietzschiana, dunque, nella quale la realtà, l’essere (se si vuole), crollati i dogmi e i filtri dell’assolutismo ideologico, appariva al genio di Recanati, per la prima volta nel mondo moderno (!), nella sua nudità antimetafisica, come «infinito», cioè «indefinito», luogo libero dai confini, dagli steccati, dai filtri imposti dal potere, ma fuorvianti e decisamente non necessari.
Era questa la conclusione cui lo scrivente era, invero, giunto in un suo recentissimo articolo [6]:
[…] l’infinito leopardiano non è il nulla materialistico o nichilistico, né tampoco l’infinito assoluto cioè il Dio della religione cristiana, come ipotizza Giuseppe Savoca, in un denso, interessantissimo saggio[7], ma il territorio «indefinito» in cui il poeta giovanissimo approdò con piacere (dopo lo sgomento iniziale), nel settembre del diciannove, dopo avere saltato gli steccati (già prospettatigli come invalicabili dal padre e dai maestri) della più rigida poetica classicistica e del più ottuso clericalismo papalino. Quanto dire che lo sgomento («ove per poco / il cor non si spaura») e il piacere del naufragio («il naufragar m’è dolce»), motivi centrali nell’Infinito, sono da collegare alla scoperta, da parte del poeta, che il mondo, la natura, l’uomo, la letteratura, i sentimenti, la religione non sono affatto riducibili dentro i confini del classicismo-misoneismo papalino in cui i suoi primi maestri, de-finendoli e normalizzandoli, cercavano di comprimerli: scoperta, davvero pre-nietzschiana, fatta «di salto», […] dal poeta, tra la fine del 1818 e l’inizio del 1819.
Senonché, un inatteso collegamento con una acutissima notazione di Luigi Blasucci, ha spinto in avanti, in questi giorni, i margini della ricerca stessa in una direzione inedita che vuole essere evidenziata.
Vale a stento la pena di ricordare che il Blasucci, nel famoso saggio Leopardi e i segnali dell’infinito aveva individuato, sulla scorta di Tilgher, un «processo narrativo» all’interno del celeberrimo idillio leopardiano[8], ma aveva lasciato cadere nel vuoto una sua notazione, registrata nel primo dei dodici Paragrafi sull’«Infinito», che ne costituiscono il capitolo quarto: «Si determina così all’interno della lirica un vero e proprio scarto tra l’incipit familiare e consuetudinario e l’esperienza “eccezionale e suprema” che si inscrive nella cornice di quella consuetudine»[9]. Proprio quella che ha propiziato l’«inatteso collegamento» con la conclusione pre-nietzschiana delle precedenti ricerche di chi scrive: non è, d’altra parte, la critica, anche metacritica?
Certo, il saggio di Blasucci, come tutti quelli che aggiungono conoscenze al già detto, approfondisce ulteriormente – e giammai chiude – l’indagine sul testo; mentre cerca, in ispecie, di rispondere alle domande che il testo pone, ne stimola altre, a sua volta: se c’è, dunque, un «processo narrativo» nella strutturazione dell’Infinito e se c’è uno «scarto» tra l’incipit familiare e «l’esperienza eccezionale e suprema» che vi si registra, che tipo di narrazione è quella dell’idillio leopardiano? O, in altri termini, di che cosa è narrazione l’Infinito? È solo «la narrazione di un processo spirituale», come voleva Tilgher[10], seguito da Blasucci? Ammesso, poi, che di questo si tratti, da che cosa (e in quale particolare contesto situazionale, culturale) è stato causato tale «processo spirituale»?
Blasucci ricostruisce, invero, la fase genetica del componimento, restando, come si deve, sul terreno testuale e rintracciandone, con acume filologico, i prodromi nelle pagine dello Zibaldone e in altri scritti del Recanatese, senza derogare tuttavia dalla sua linea d’indagine decisamente e magistralmente descrittiva. Alla fine, l’idillio gli appare giustamente contrassegnato, sul piano tematico dalla scoperta, da parte del poeta, dell’infinito spazio-temporale (con i portati della paura iniziale e dalla felicità finale) e, sul piano formale, da un ricco insieme di «soluzioni espressive» aperte verso il futuro della poesia leopardiana.
Non si pone, in effetti, l’illustre critico, alcuna domanda sul tempo e sul motivo in cui e per cui il poeta, «sedendo e mirando», ha scoperto (non certo, per intervento dello Spirito Santo), in un giorno del 1819, a ventuno anni, «l’infinito spaziale» e «l’infinto temporale», con tutto ciò che ne consegue.
Si è che Blasucci decontestualizza di fatto la composizione dell’Infinito, considerando di tipo «iterativo» e non «singolativo» (Genette) la narrazione del processo interiore presente nell’idillio, asserendo quindi che «tutti i verbi al presente della lirica […] saranno da intendersi come presenti iterativi: ‘sono solito fingermi nel pensiero’, ‘sono solito andare comparando ecc.» e attenuando la «portata avversativa» del «Ma» del verso 4, nonché il senso pregnante dell’avverbio iniziale («Sempre») e dell’iniziale, unico verbo al passato remoto («fu»)[11].
Si tratterrebbe, in altri termini, di una sorta di racconto atemporale (scritto al tempo presente, con un solo, innocuo ricorso al passato remoto, ma praticamente senza un prima e un dopo), e irenico, quasi paradisiaco, lineare (senza alcuna avversione-diversione), con un solo protagonista (l’io poetante) e senza antagonista alcuno. Leopardi, insomma, sarebbe stato solito fingersi «nel pensiero» («interminati / spazi», «sovrumani / silenzi, e profondissima quiete») e andare «comparando» «quello / infinito silenzio a questa voce», sempre e ripetutamente, a prescindere da ogni particolare, singolo evento e momento della sua vita, dacché, alla fine,«ciò che si narra nel testo è la rivelazione dell’infinito, sia pure nella finzione del pensiero». Quanto dire, un’avventura spirituale fuori da ogni condizionamento esterno: mentale per l’appunto.
Ma le ricerche di chi scrive hanno dimostrato ampiamente che uno «scarto» effettivo e concreto ci fu nella vita di Giacomo Leopardi in quell’anno eccezionale: il Contino aveva, infatti, consapevolmente scavalcato – vale la pena di ribadirlo – lo steccato che divideva, per i classicisti, la poesia degli antichi dalla poesia romantica, scrivendo una canzone («censurata» dal padre) ultraromantica e dichiarandosi quindi ugualmente distante dalle due scuole, e aveva altresì superato il veto che la rigida morale papalino-monaldesca opponeva all’amore fuori dal matrimonio (e alla sua rappresentazione letteraria), confermando tale scelta nella Telesilla.
Ne discende, quasi automaticamente, che la narrazione dell’Infinito sia di tipo propriamente «singolativo», che il «Ma» iniziale conservi tutta la sua «portata avversativa», che i verbi al tempo presente non siano affatto «iterativi», che il «Sempre» e il «fu» non scolorino nella«prospettiva di una durata indefinita» ma mantengano la loro inequivocabile, salda dimensione temporale. Ci sono, in altri termini, fondati motivi per ritenere che il «processo narrativo» individuato da Tilgher e approfondito da Blasucci, sia efficacemente operativo nel famosissimo idillio, che cioè la diacronia passato–presente e il distacco dal passato (papalino, classicistico, antiromantico) ne costruiscano gli effettivi – e finora elusi – nuclei genetici.
Al di là di ogni delimitazione di “genere”, l’Infinito, potrebbe invero configurarsi come il più secco, breve romanzo della letteratura mondiale con una sua innegabile linea diacronica – la «durata» connota il romanzo, secondo Moravia -, costituita, secondo norma, da un incipit euforico («Sempre caro»), da un «oppositore» disforico («ove per poco il cor non si spaura») e da un explicit euforico («m’è dolce»).
In questa prospettiva, il «colle» e la «siepe», pur conservando tutta la loro pregnanza realistico-sentimentale, si configurano – per evidente, marcata ipersemantizzazione – come metafore: ardite, sublimi metafore, invero, della casa e della cultura monaldesca (papalina, classicista, antilluministica, antiromantica, antifrancese), che fu sempre cara a Giacomo Leopardi prima del 1819, impedendogli, però, letteralmente, «il guardo» «dell’ultimo orizzonte» cioè della realtà esterna. Ma, dopo aver scritto, tra l’altro, le due «canzoni censurate» e l’abbozzo della Telesilla, abbandonando i confini netti, rigidi, nettamente definiti della poetica, dell’etica e dell’assiologia cattolico-classicistica e ritrovandosi in un terreno, per lui vergine, “altro”, privo di limiti e di confini, provò dapprima, «sedendo e mirando», lo smarrimento («[…] ove per poco / il cor non si spaura») dell’«indefinito»spaziale e temporale e quindi il piacere del naufragio nel vasto mare dell’essere senza limiti, indefinito («il naufragar m’è dolce in questo mare»).
Ove si ponga, poi, mente al fatto che il Recanatese redasse («con molta probabilità» nell’aprile del ’19) il pensiero di Zibaldone, 50-51 e, probabilmente nel giugno dello stesso anno, il secondo degli Argomenti di idilli – due testi che vanno assunti come l’avantesto dell’Infinito –, si deve dedurre che il superamento dell’ottica familiare e lo sconfinamento in un territorio sconosciuto, indefinito, si saldò miracolosamente, nel corso della testura, con la scoperta simultanea, dell’indefinito spaziale per via visiva (già esperita nel secondo degli Argomenti di idilli)[12] e dell’indefinito temporale, per via uditiva (come in Zibaldone, 50-51)[13].
La fusione di tali componenti, apparentemente eterogenei, in una omogenea cifra stilistica fu, peraltro, propiziata dal sapiente riuso, da parte del poeta, di termini, concetti, immagini, presenti nella letteratura settecentesca, orientata verso la poetica del sublime[14].
Da qui, dall’Infinito, entusiastico canto di liberazione dalle strettoie di una cultura asfittica, inizia – sia detto senza retorica – la storia della poesia leopardiana. Una poesia che ancora invade il mondo, come quella che ha inaugurato, nei modi assoluti del «pensiero poetante», una delle vie maestre del sapere moderno, ampliando la conoscenza del mondo e dell’uomo nel mondo.
[1] Cfr. G. LEOPARDI, Zibaldone di pensieri, Edizione critica e annotata a cura di G. Pacella, Garzanti, Milano 1991, I, p. 70 (vi si rimanda nelle citazioni zibaldoniane che seguono).
[2]Cfr. E. GHIDETTI, Note ai testi, in G. LEOPARDI, Tutte le opere, con introduzione e note di W. Binni, con la collaborazione di E. Ghidetti, Sansoni Editore, Firenze 1983, p. 1426 (sono di Ghidetti le datazioni di opere e abbozzi leopardiani, indicate in questo paragrafo). Si rimanda a detta edizione nelle citazioni (di opere leopardiane) che seguono.
[3] Cfr. G:RANDO; Nei pressi dell’Infinito e altri saggi leopardiani, Aracne, Roma 2015, pp.
[4] Cfr. LEOPARDI, Tutte le opere, cit., p. 937.
[5] Cfr. LEOPARDI, Zibaldone di pensieri, cit. p. 147 [144]
[6] RANDO, Giacomo Leopardi: il «salto» dell’Infinito, in «Studi sul Settecento e l’Ottocento. Rivista internazionale di italianistica», XIII (2018), pp. 49-69.
[7] G. SAVOCA, L’estasi dell’Infinito, in ID., Leopardi. Profilo e Studi, Leo S. Olschki Editore, Firenze 2009, pp. 23 ss.
[8] Si veda L: BLASUCCI, Leopardi e i segnali dell’infinito, Il Mulino, Bologna 1985,p. 121.
[9] Ivi, pp. 97-98.
[10] Si veda A. TILGHER; La filosofia di Leopardi, Edizioni di Religio, Roma 1940, p.49.
[11] Cfr: BLASUCCI, I segnali …, cit., pp. 97-101.
[12] Vi si legge. «Galline che tornano spontaneamente la sera alla loro stanza al coperto. Passero solitario. Campagna in gran declivio veduta alquanti passi in lontano, e villani che scendono per essa si perdono tosto di vista, altra immagine dell’infinito».(p. …….).
[13] Vi si legge:« Dolor mio nel sentire a tarda notte seguente al giorno di qualche festa il canto notturno de’ villani passeggeri. Infinità del passato che mi veniva in mente, ripensando ai Romani così caduti dopo tanto romore e ai tanti avvenimenti ora passati ch’io paragonava dolorosamente con quella profonda quiete e silenzio della notte, a farmi avvedere del quale giovava il risalto di quella voce o canto villanesco» (Zib. 50-51). Sui due testi, ci sia concesso di rinviare a RANDO, Giacomo Leopardi: il «salto» …, cit., pp. 60-61.
[14] Cfr. R. GAETANO, Leopardi e l’infinito. Un breviario del sublime, Pellegrini Editore, Cosenza, 2019.