• Grazie, Professore.
      • Professore, c’è qualcosa di nuovo nel mondo delle lettere o gli studi letterari svolgono una funzione ormai marginale – come molti pensano – nel mondo della tecnologia avanzata, limitandosi perlopiù a rimasticare il già detto?
      • Qualcosa cambia anche nel mondo – perlopiù statico (da alcun tempo in qua) – degli studi letterari. Per parlare di cose che conosco meglio, le posso dire che sono crollate, «nel secolo breve», per oggettiva inconsistenza storica, non solo la tesi dell’Alfieri astrattamente «libertario» avanzata da Croce, ma anche quella dell’Alfieri «anarchico» formulata da Calosso, e quella dell’Alfieri «sradicato» e «reazionario» sostenuta da Sapegno (che imperversava nei Licei e nelle Facoltà di Lettere, fino a qualche decennio fa).
      • E cosa c’è oggi, in cambio?
      • S’impone, sempre più nettamente, la figura, storicamente fondata, dell’Astigiano «postilluminista progressivo», critico del Dispotismo illuminato (caro agli Illuministi), nonché primo assertore del Costituzionalismo in Italia e, contestualmente, padre geniale della tragedia moderna.
      • Non ne ho sentito parlare. Ma come si arriva a questo notevole cambiamento e chi lo ha innescato?
      • Chi ha fatto giustizia degli abbagli crociani, calossiani e sapegniani, rivelandone la fondamentale distorsione ideologica, è un appartato studioso siciliano, che lavora da più di un trent’anni sui testi alfieriani, col supporto della Storia e della Filologia: si chiama Giuseppe Rando – mi scusi se, per pudore, parlo in terza persona – ed è stato professore ordinario di Letteratura Italiana presso l’Università di Messina.
      • Forse, i nostri lettori gradirebbero saperne di più.
      • E allora dirò sperando di non deluderli. Già negli anni Ottanta del secolo scorso, in uno scarno, antibellettristico volumetto romano, pubblicato da Herder, Tre saggi alfieriani (cui andarono i consensi di Spongano che ne pubblicò una vasta, dettagliata recensione in «Studi e problemi di critica testuale», 28, 1984, di Petronio, che lo accolse nella sua Antologia della critica letteraria, Bari, Laterza, 1986, e di Romagnoli, che lo citò nella sua edizione sansoniana delle Tragedie), spostavo sul piano filologico il dibattito intorno all’ideologia politica dell’Astigiano, dimostrando, attraverso un’attenta analisi delle varie fase redazionali della Tirannide (1777-1789) che l’autore, nell’edizione definitiva del trattato, aveva chiaramente recepito la lezione dei costituzionalisti francesi della seconda metà del Settecento e di Mably in particolare, di cui mutuava perfino termini e concetti fondamentali.
      • Incredibile! Prego continui.
      • In quello stesso volumetto, individuavo, per primo (devo dire), la forte caratura storica del Panegirico di Plinio a Trajano (1785) che proietta difatti nel passato “romano”, secondo criteri tipici della trattatistica politica del tempo, la proposta costituzionalistica moderna, peraltro conforme a quella fatta da Diderot all’imperatrice Caterina II di Russia: se vuoi essere davvero considerato optimus princeps, rinuncia al potere assoluto, concedi la costituzione e riconosciti «minore» delle leggi. Donde, la mia tesi sul Panegirico come «metafora del pensiero politico alfieriano». Epperò il trattatello, da allora, divenne altra – notevolissima – cosa rispetto alla presunta operetta retorica su cui dissertava, a vuoto, la vecchia critica alfieriana. Vale pure la pena di ricordare che la «funzione innovativa» degli studi alfieriani di Rando rilevava, tra gli altri, Arnaldo Di Benedetto, in Dal tramonto dei lumi al Romanticismo: valutazioni, Mucchi,Modena, 2003, p.
      • Non le hanno dato il Nobel (se c’è) della critica?
      • No, tolto il consenso entusiastico – devo dire – degli alunni e di alcuni colleghi “continentali”, ero, di fatto, marginale nel mio mondo: forse, facevo ombra a qualche papavero locale, «mediocre ma illustre», come diceva mio fratello. A me la cosa non pesava più di tanto: disprezzavo il sistema, lo contestavo ma capivo che era immodificabile, in tempi brevi. Ero peraltro appagato dai risultati del mio lavoro: leggevo, studiavo, facevo ricerche, insegnavo, scrivevo su Alfieri e su molti altri autori, maggiori e minori, della letteratura italiana (Leopardi, Manzoni, Cameroni, Verga, Onufrio, Pirandello, Alvaro), pubblicando saggi e volumi molto apprezzati: what else? Ma la sua domanda ironica merita una risposta più dettagliata. Guardi, però, che la mia risposta, potrebbe essere una bomba, nonostante sia basata sulla mia personale esperienza e su molti racconti (orali) più che su prove documentali. Io sono il primo, invero, che rompe la regola del silenzio corporativistico, se non paramafioso, del sistema “baronale” in Italia, ma non so se lei se la sente di continuare.
      • Ma certamente, professore. Muoio dalla voglia di sapere. Ci dica tranquillamente. Magari passeremo alla storia.
      • Lei certamente non sa che la gestione dell’italianistica – relativamente, quantomeno, al reclutamento dei docenti – era affidata, in Italia, fin dagli anni Settanta del secolo scorso (dagli anni Ottanta per il reclutamento dei professori associati), col consenso unanime, ma sottaciuto, degli onnipotenti professori ordinari del settore (di tutte le tendenze politiche) a un satrapo siciliano, democristiano, salito, col “salto della quaglia”, sulla prestigiosa cattedra che tenne per trent’anni, ed abilissimo mediatore (politically correct)). Era arcinoto che, in vista di un concorso, i vari «Maestri» presentassero la candidatura dei loro allievi («A ognuno il suo asino», chiosava, sardonico, Giuseppe Petronio) al satrapo che provvedeva, da assiduo frequentatore del Ministero, a scegliere i vari commissari del concorso stesso, ai quali trasmetteva – secondo criteri stabiliti e concordati con i «Maestri» – i nomi dei vincitori: quelli che sarebbero stati, poi, ufficialmente (?!), selezionati sulla base della loro produzione scientifica. E ciò si faceva – come l’amore, in una famosa canzone degli anni Trenta –, ma non si diceva: si sussurrava nei corridoi. Parte da lontano, invero, lo sfascio dell’Università in Italia. Ma devo continuare?
      • Certo, professore, non ci tenga col fiato sospeso.
      • Tanto è vero che la riforma universitaria del 2009 (DM 27/03/09) tentò di rimuovere questo effettivo scandalo di cui si parlava in tutta Italia (e non solo in Italia), anche nei grandi giornali (un ministro berlusconiano (!) aveva denunciato sul «Corriere della Sera» (!), nel 1994, i «privilegi di figli e amanti dei baroni»), introducendo il sistema della pubblica elezione dei commissari nelle commissioni dei concorsi a cattedra. Ma, per quel che se ne sa, non pare che le cose siano radicalmente cambiate.
      • E lei, scusi, professore?
      • Io, per farla breve, non avevo un Maestro alle spalle (Calogero Colicchi, mio primo mentore, nell’italianistica, era scomparso giovanissimo) che mi potesse presentare al satrapo e io, per giunta, non ero mai voluto trasmigrare nella sua Facoltà, alla sua «scuola» («corte», la chiamavano) che comportava molti «servizi», come dicevano gli stessi adepti e come racconta anche una sagace giornalista, in un suo famoso reportage. Quegli non perdeva, invero, occasione per invitarmi, con i modi felpati dei potenti («Io apro a chiunque bussi alla mia porta»), ma io, che ero già diventato professore associato (nei primissimi anni Ottanta), col supporto di Giuseppe Petronio, ho anteposto, da buon marinaio, la libertà al «servizio».
      • È quasi un romanzo. E poi?

      Niente. Sono stato tenuto, per qualche lustro, come renitente, nel bagnomaria dei professori associati (continuando però a trasmettere, con piacere e con una intensa attività didattica, i risultati delle mie ricerche a centinaia e centinaia di studenti siciliani e calabresi) e sono infine diventato professore ordinario, con almeno un decennio di ritardo, soprattutto – credo – per le pressioni di Petronio sul satrapo. Procedevo, ad ogni modo, imperterrito per la mia strada di critico e di professore (ordinario), incrementando la mia attività scientifica e pubblicando anche, nel 2007, un secondo volume alfieriano, Alfieri europeo: le «sacrosante leggi», presso Rubbettino, in cui ribadivo – unico, sia detto senza iattanza, nella storia della critica alfieriana – la natura progressiva dell’ideologia alfieriana nel contesto delle più avanzate tendenze della cultura politico-economica del tempo. Mi fermavo, in specie, su un capitolo del principale trattato (Della Tirannide, I, XIII), in cui Alfieri assegna all’«industria», al «commercio» e alle «arti» una funzione e un valore fondamentali per il mantenimento della «repubblica», in alternativa alla Fisiocrazia illuministica, che privilegiando il latifondo («l’inerte accumulamento di moltissimi beni di terra in pochissime persone»), finiva con l’accentuare la disparità eccessiva delle ricchezze tra la popolazione e l’instabilità dei governi. Per il costituzionalista Alfieri, essendo «la uguaglianza dei beni […] una cosa chimerica affatto», bisogna, invece, che «le buone leggi abbiano provveduto o provvedano» a propiziare la formazione di «un certo stato di mezzo» (la borghesia imprenditoriale) e quindi la divisione del popolo «in pochi ricchissimi, in moltissimi agiati, ed in pochi pezzenti». Quanto dire: Alfieri costituzionalista e liberale «protomoderno» (il socialista Walter Binni aveva intravisto, nel 1949, un «Alfieri liberale», non altrimenti specificato); per nulla «sradicato», né tampoco «anarchico». E va detto, per la completezza dell’informazione, che la natura «innovativa» della mia tesi veniva anche evidenziata da Giovanni Ronchini in una puntuale, ampia recensione al volume rubbettiniano, apparsa su «Studi e problemi di critica testuale» (78, 2009). Continuava a mancarmi, tuttavia, la rete propagandistica di cui gode, di norma, l’allievo di un rinomato maestro, con una solida scuola accademica alle spalle.

      • Apprezzato fuori casa, dunque, e ignorato in casa.
      • Mah, viviamo in un mondo di guai (politici, economici, sociali, climatici). Non c’è poi chi non abbia seri problemi personali o familiari o di salute. Al confronto, i miei disappunti – chiamiamoli così – sono lievi da sopportare come piogge primaverili. Alla fine, per dirla in breve, mi è stata, sì, tolta, nella fase centrale della mia carriera, per un lungo periodo – dieci anni, se non più –, la possibilità di radicarmi, di avere più prestigio e – perché no? – più potere, in un mondo difficilissimo, nel quale le cariche, se non sono tutto, contano certamente molto. Ma non mi hanno tolto (facendo gli scongiuri) né la salute né la voglia di fare, di continuare, di fare ricerca, di andare avanti. Mi restava – e mi resta – peraltro, grazie alla democrazia («incompleta» ma oramai radicata), l’arma della denuncia (o meglio, della libera testimonianza), con la prospettiva allettante di contribuire al cambiamento in meglio dell’Università, magari evitando che altri studiosi seri, domani, per fare ricerca scientifica, siano costretti ad attraversare «il mare sugli zoccoli», come è toccato a me. Quel che più mi dispiace è che non ho potuto valorizzare, come avrei dovuto e voluto, qualche mio valente allievo, dando peraltro concreto impulso alla mia scuola effettiva. Per converso, non pochi baroni e baronelli universitari, che non hanno mai scritto né pubblicato alcun saggio innovativo, portano facilmente in cattedra allievi, probabilmente non migliori di loro («Un discepolo non è da più del maestro né un servo da più del suo padrone», per scomodare Matteo). Sono i frutti tipici del sistema baronale.
      • Ma è stato anche un comportamento masochistico – direi – dei “baroni” del suo settore disciplinare: in città, si sa che il prof Rando ha dato molto all’Università (coi suoi libri innovativi) e al territorio (col suo impegno socio-culturale); ma avrebbe dato sicuramente di più, in quei dieci anni (e più) di ordinariato che gli sono stati rubati. Certo, avrebbe contribuito, più autorevolmente (da professore ordinario!) a debellare il «verminaio» e a diffondere valori e saperi tra i giovani delle due sponde dello Stretto che ne avevano, e ne hanno, bisogno.
      • Non so, non spetta a me dirlo. Grazie, però, della sua considerazione. Devo tuttavia riconoscere che il mio è un caso più unico che raro: un professore ordinario che pubblica libri innovativi (a parere – scritto (!) – di non pochi, accreditati studiosi) e che resta isolato nella sua Facoltà (o Dipartimento che sia), pur essendo naturalmente – parrebbe – portato al dialogo, alla conversazione, alla trasmissione solidale, empatica del sapere. Ancora più paradossale il fatto che, nella società dello spettacolo, dell’apparenza, in cui anche mediocri intellettuali vengono spesso alla ribalta (politica, accademica, giornalistica, televisiva ecc.), uno studioso democratico, che qualcosa di buono ha fatto nel suo contesto, viva appartato e appagato in famiglia e tra una stretta cerchia di amici. Delle due l’una: o io sono un asceta rimbecillito o Messina è una città strana; tertium non datur. Mi consola, ad ogni modo, il fatto – non lo nascondo – che i miei libri mostrano di avere tutti crismi per restare nella storia della critica letteraria, laddove di certi baroni e baronelli si sono già persi nome e cognome. Ma mi gratifica anche, non poco, la possibilità di continuare a insegnare Letteratura Italiana nella Scuola Superiore per Mediatori Linguistici di Reggio Calabria: comunico dunque sono.
      • Forse, le è mancato quel pizzico di fortuna, che nella vita ci vuole.
      • Tuttavia, non mi sono mai rassegnato. Ho anzi intensificato viepiù le mie ricerche, continuando a pubblicare saggi e volumi, non pleonastici (credo di poter dire) su Leopardi, su Verga su Quasimodo e su molti scrittori meridionali (Edoardo G. Boner, Giovanni A. Cesareo, Stefano D’Arrigo, Giuseppe Occhiato, Giorgio Bongiovanni, Maria Costa, Corrado Calabrò, Giuseppe Ruggeri, Maria Privitera, Josè Russotti, Antonio Cattino). Per non dire del corposo volume, Resistere a Messina. Reportages, lettere, racconti e saggi critici, in cui coesistono, forse per la prima volta nell’editoria, impegno socio-politico, scrittura narrativa e critica letteraria, con i loro diversi, ma non divergenti, codici espressivi. Ho anche pubblicato, qualche anno fa, essendo già in pensione, un nuovo volume alfieriano, Alfieri e il Costituzionalismo tra politica, teatro e letteratura, (Edizione dell’Orso, Alessandria 2021), che costituisce il giusto – mi pare – coronamento di trent’anni di studi: nell’illustrare, con dovizia filologica (mi si conceda), lo stretto connubio di politica (costituzionalismo) e letteratura, esistente nella vasta produzione alfieriana, tracciavo invero un nuovo, dettagliato ritratto dell’Astigiano, primo costituzionalista italiano e, nel contempo, padre geniale, come le dicevo, della tragedia moderna.

      Emergeva, in ispecie, dai miei studi, la perfetta coincidenza temporale, nella drammaturgia alfieriana (a partire dal Timoleone del 1782), tra la prima attestazione (da parte dell’Astigiano) del Costituzionalismo come «sovranità delle leggi» e l’adozione, ribadita nelle tragedie successive, di una inedita tecnica «sospensiva», mirata allo svelamento progressivo del male tra le contraddizioni e le mistificazioni della realtà. Tanto più rilevante la cosa, ove si consideri che, nella precedente produzione tragica d’Alfieri, dominava una tecnica «ostensiva», di stampo melodrammatico, perfettamente funzionale a una dimensione rigidamente oppositiva, manichea e immodificabile dell’universo.

      • Mi pare di capire che lei ha scoperto una nuova dimensione della drammaturgia alfieriana.
      • Infatti, ho illustrato (per primo, scusi), nel saggio suddetto, due distinte, grandi stagioni della drammaturgia di Vittorio Alfieri, il cui discrimine è segnato appunto dal Timoleone: vertici stilistici della prima e della seconda sono, rispettivamente, Filippo e Saul; tra le due stagioni (e i due capolavori), ho individuato tre fatti concomitanti: a) l’adesione di Alfieri al Costituzionalismo, b) la parallela scoperta – enunciata dallo stesso autore nel Parere su Saul – della «perplessità del cuore umano», c)  la contestuale adozione della tecnica «sospensiva». Donde, la nascita clamorosa della tragedia moderna: dopo Saul, il nemico del protagonista non è l’altro (l’antagonista della tragedia classica), ma lo stesso protagonista o, meglio, la parte buia del protagonista che lotta contro la sua parte luminosa: alle soglie – direi – della modernità novecentesca.

      Forte, quindi, di tale chiave ermeneutica, senza deflettere (credo di poter dire) dal rigore storico-filologico, riesaminavo anche le opere alfieriane nate a ridosso della rivoluzione francese, offrendo un appropriato diorama delle novità stilistiche e tematiche del Parigi sbastigliato, delle Satire, del Misogallo e soffermandomi, in ispecie, sulle Commedie, che interpreto come la risposta laica, positiva, costituzionalistica dell’Astigiano agli eccessi del Terrore (L’Antidoto), alla decadenza dei costumi napoleonici (Il Divorzio) e alla cultura cinica, materialistica e relativistica dei presunti rivoluzionari giacobini (La Finestrina).

      Crescevano intanto i consensi, assai gratificanti, alle mie ricerche, sia in Italia (Stefano De Luca) sia all’estero (Christian Del Vento), per dirla in breve. Per la cronaca: nel 2023, ho pubblicato un saggio su L’infinito di Leopardi, un saggio sul Natale nella letteratura italiana e, qualche mese fa, un libro sulla poesia postmyricea di Giovanni Pascoli.

      • Vuole, professore, sintetizzare al massimo la sua tesi su Alfieri, per i nostri lettori?
      • Certo, sperando che la recepiscano, soprattutto, i politici della Destra di ieri e di oggi che non sembrano credere nella «separazione dei poteri»: uno dei pilastri effettivi su cui andiamo costruendo, da due secoli, sulla scorta di Alfieri, appunto, la democrazia in Italia, in Europa e nel mondo occidentale.

      In estrema sintesi, Alfieri è il primo costituzionalista italiano perché nei Trattati politici, nelle tragedie politiche (a partire da Timoleone), nel Parigi sbastigliato, nell’America libera, nelle Satire, nelle Commedie, mostra di condividere la tesi dei costituzionalisti francesi della seconda metà del Settecento: per lui, il decantato (dagli Illuministi) dispotismo illuminato è, invece, una «tirannide mistificata», dacché il «principe buono» resta al di sopra delle leggi e partecipa dei tre poteri dello stato; non è tirannico, secondo Alfieri, solamente uno stato in cui sovrane siano le «sacrosante leggi» scritte (la Costituzione) e in cui viga la netta separazione dei poteri.

    • Grazie, Professore.
  • Di nulla. Lei mi ha dato, anzi, l’opportunità (insolita, in questa amata città) di offrire una serena testimonianza dei disagi patiti nell’Università da uno studioso “innovativo”: forse, sarà utilizzata, domani, da chi vorrà fare la storia (senza paraocchi) dell’Italianistica messinese, dalla seconda metà del Novecento ai primi decenni del Terzo Millennio.
  • Ne sono convinto.

Pippo Isgrò

 

 

 

 

 

 

 

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