Chi mi conosce sa che sono, per natura prima che per cultura, del tutto estraneo, se non alternativo, all’esibizionismo narcisistico di molti professori ordinari dell’Università.

Sicché mi sono sempre attenuto all’antica massima, cara ai veri signori (ma anche ai pescatori di Cariddi), secondo cui «chi si loda s’imbroda». E, contento dell’essere, non ho, forse, dato il giusto rilievo – nella società dello spettacolo! – all’apparire, come mi faceva notare, qualche tempo fa, l’amico Nino Principato esortandomi a comunicare al vasto pubblico della città e dell’isola i risultati dei miei studi, anche attraverso i social. La mia signorile-marinaresca discrezione ha, invero, privato i miei amici (non addetti ai lavori) d’informazioni che avrebbero sicuramente gradito.

Ora, però, non posso più tacere: sarebbe come nascondermi per viltà. Anche se temo che i miei colleghi “continentali”, inesperti delle “delizie” messinesi, avranno difficoltà a capire la mia “svolta”. Si sappia, ad ogni modo, che tale mio (purtroppo tardivo) cambiamento di stile è dovuto alla pubblicazione recente, pressoché simultanea, di due monografie alfieriane, scritte da due insigni colleghi (Bartolo Anglani, ordinario di Letteratura Comparata a Bari, e Stefano De Luca, ordinario di Storia delle Dottrine Politiche a Napoli), i quali mostrano di apprezzare il mio impegno di studioso senza maestro-padrone, immune dal tarlo dell’ideologia e addirittura innovatore nel suo settore di studi. Ai due illustri studiosi va, dunque, in primis, il mio cordiale, profondo, sentito ringraziamento.

Certo, qualcuno dei miei colleghi ucciderebbe anche il padre (se gli campasse), per avere solo un quarto di tali apprezzamenti. Non si tratta, invero, di un riconoscimento di poco conto, dacché nei due volumi suddetti s’insiste, con dovizia di particolari, sulla funzione «innovativa» dei miei studi e sul fatto che proprio io, Giuseppe Rando, «lo studioso siciliano» (De Luca), ho inaugurato, negli anni Ottanta del secolo scorso, in Italia e nel mondo intero delle Lettere, il discorso sul costituzionalismo alfieriano. Devo anche dire, per la completezza dell’informazione, che le due monografie erano state precedute, negli anni precedenti, da una serie di giudizi molto positivi, formulati da maestri effettivi del calibro di Giuseppe Petronio, di Arnaldo Di Benedetto e di altri insigni studiosi italiani ed europei, efficacemente ricordati in nota nelle due monografie suddette. Tra questi ultimi, spicca, invero, Christian Del Vento, ordinario di Lingua e Letteratura Italiana alla Sorbonne Nouvelle di Parigi, con un saggio, pubblicato nel 2006, in «Seicento &Settecento», I, pp.149-170, Il “Principe” e il “Panegirico”. Alfieri tra Machiavelli e De Lolme, che esordisce citando, in apertura, proprio il «volume ricco di proposte interpretative» di Giuseppe Rando (causò – mi dicono –  un catastrofico eccesso di bile  ad un barone). Vale, forse, la pena di riportare qui l’incipit di quel saggio fondamentale, sperando che non dia il “colpo” definitivo a qualcuno:

 

Alcuni anni fa, in un volume ricco di proposte interpretative, Giuseppe Rando ha mostrato con un’analisi ricca di riscontri testuali come il passaggio dalla prima redazione del trattato Della Tirannide […] non fu solo l’occasione per «numerosi e profondi ritocchi lessicali e stilistici», ma vide trasformarsi profondamente il suo impianto ideologico […].

 

Per dirla in soldoni, è successo che, dopo duecento anni (duecento!) di letture e di interpretazioni fallaci del pensiero politico di Vittorio Alfieri (di volta in volta, definito astrattamente «libertario» – [Croce] – o, peggio, «anarchico» [Calosso] o, peggio ancora, «reazionario» e «sradicato» dal suo tempo [Sapegno]), è stato proprio un professorino dell’Università di Messina, da poco associato, a dimostrare (dimostrare, una volta per tutte, testi e storia alla mano) che Vittorio Alfieri fu il primo intellettuale (scrittore, poeta, tragediografo, commediografo) italiano ad avere codificato, sulla scorta dei costituzionalisti francesi del secondo Settecento (soprattutto Mably, Mounier De Lolme, Livingston, l’ultimo Diderot, che solo dopo i miei studi sono entrati nel vasto campo della critica alfieriana), e quindi introdotto in Italia il costituzionalismo, in alternativa al fatiscente (negli anni Ottanta del XVIII secolo) dispotismo illuminato, già caro agli illuministi, facendone, peraltro, l’asse portante di gran parte della sua produzione letteraria. Una rivoluzione, a dir poco.

È facile, pertanto, arguire che in ogni altra città d’Italia e d’Europa un «innovatore» siffatto sarebbe stato portato sugli scudi, laddove, a Messina, marginale e attardata provincia della «provincia dell’Impero» (per dirla con Eco), Giuseppe Rando è vissuto e vive (toccando ferro), felice e appagato nella sua cerchia familiare e amicale, tra il plauso degli studenti e delle persone colte dello «scill’e cariddi», gratificato del lusinghiero consenso di non pochi colleghi continentali, sempre impegnato, con successo, in tutte le attività culturali del territorio, ma sempre «orgogliosamente estraneo» – afferma sardonicamente  un mio collega anarchico – «ai fasti e ai misfatti degli apparati del potere accademico». Si è che i miei innovativi studi alfieriani intralciavano, da un lato, in virtù dei crescenti, non occultabili, consensi che riscuotevano,  i progetti clientelari di un barone locale e, dall’altro, pur gravitando decisamente nell’area della cultura democratica e progressista, demistificavano certe interpretazioni critiche accreditate (e incancrenite) nelle due culture dominanti del Consociativismo politico: non è un caso, quindi, se la rivoluzionaria posizione di Alfieri, svelata da Rando, stenta ancora a farsi strada nella Scuola e nell’Università.  Non ebbi, insomma, alle spalle, né una scuola importante  né un forte apparato politico-ideologico: mi trovai, inerme Colapesce, in un mare agitato da marosi troppo alti.  Caso, forse, più unico che raro, e tuttavia emblematico delle distorsioni del sistema accademico – quanto meno nel settore dell’italianistica – tra prima e seconda repubblica.

Tuttavia – devo dire con una punta di orgoglio cariddoto – non mi sono lasciato sopraffare, ho reagito e reagisco, come tutti quelli che hanno il privilegio di lottare, a fronte alta, per una giusta causa: divenni professore associato e quindi, con qualche lustro di ritardo (imposto dall’alto), finalmente ordinario. Quanto dire, per altro verso, che, in questa «democrazia incompleta» (Moro) un giovane (in illo tempore!) studioso, innamorato della sua professione e della ricerca scientifica può farcela, nonostante tutto.

Ma è giusto – continuo a chiedermi – che, in un paese democratico, un giovane studioso promettente, sprotetto (senza un maestro-padrone, senza un padre altolocato, senza un partito alle spalle), debba sudare tremila camicie e attraversare il mare sugli zoccoli per diventare professore ordinario dell’Università? È questa l’Università (dei figli di papà, dei raccomandati, dei servi, dei mediocri) che vogliamo regalare ai nostri giovani? Non bisogna, piuttosto, riconoscere apertamente gli errori fatti e rinsaldare i principi di merito e trasparenza, che soli possono sollevare la nostra Università ai livelli europei? Questo è, ad ogni modo – io credo – , l’ineludibile impegno mio e dei professori democratici. Per questo, continuo a scrivere e a lottare.

Per eccesso di scrupolo documentario, pubblico, intanto, in coda a questo scritto, in fotocopia, alcune pagine del volume di Stefano De Luca (Alfieri politico, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2017) e qualche pagina del volume di Bartolo Anglani (La tragedia impossibile. Alfieri e la profanazione del tragico, Aracne, Roma 2018): faranno sicuramente inorgoglire i miei amici e i molti messinesi onesti che apprezzano chi onora la nostra bella città nonché tutti i professori universitari che credono nella meritocrazia e nella trasparenza: alla faccia degli ignoranti, dei mediocri, dei baroni e dei baronelli. Le note in margine sono – sia pure con altri numeri –  dei due studiosi, ovviamente.

 

 

 

APPENDICE

 

Stefano DE LUCA, Alfieri politico, pp. 182-186

 

  1. TRA IDEOLOGIA E NON

 

Gli anni Ottanta si aprono con un lavoro – i Tre saggi alfieriani di Giuseppe Rando[1] – fortemente innovativo, sotto molteplici punti di vista. Innovativo nel metodo, sia perché i testi alfieriani vengono sottoposti a un’attenta rilettura analitica (che nel caso del Della tirannide valorizza, per la prima volta, l’evoluzione subita dal testo nelle sue diverse redazioni), sia perché vengono ricollocati nello specifico contesto intellettuale e politico nel quale sono maturati. Innovativo, poi, nella scelta dei temi, giacché vengono rilette con attenzione le commedie, ovvero le opere che, lungo tutto il Novecento, con la sola eccezione di Placella[2], erano state oggetto di una prolungata svalutazione. Ma ancor più innovativo negli esiti interpretativi, giacché Rando – contestando apertamente il mainstream novecentesco dell’Alfieri politico indeterminato, astratto, privo di vigore logico, anarchico, anti-politico e/o reazionario – sostiene che il pensiero politico dell’Astigiano si fonda su un insieme di principi ben definiti, esposti (almeno nel Della tirannide) con il vigore logico di un teorema e pienamente iscritti nel filone del costituzionalismo democratico settecentesco.

Questa interpretazione trova la sua esposizione più articolata nel saggio su Della tirannide, di cui Rando offre una rilettura analitica incentrata sul raffronto tra la redazione del 1787 (che costituiva la revisione dell’abbozzo originario del 1777) e il testo a stampa del 1789. Lo studioso siciliano sottolinea come le modifiche apportate da Alfieri dopo il 1787, in genere trascurate dalla critica, siano in realtà profonde e significative, e che costituiscano la migliore testimonianza della maturazione del pensiero politico alfieriano. Anzitutto, Rando prende in considerazione le ampie modifiche apportate, nei primi due capitoli, alla definizione del concetto di tirannide, che riprendono e radicalizzano il principio montesquiviano della distinzione dei poteri. Tuttavia, mentre Montesquieu delinea un assetto costituzionale nel quale l’esecutivo partecipa, tramite il diritto di veto, al processo legislativo, Alfieri disegna, dopo il 1787, un assetto nel quale l’esecutivo non può in alcun modo svolgere funzioni legislative e in cui è piuttosto il legislativo a condizionare l’esecutivo, attraverso il principio della responsabilità di quest’ultimo. Tra le aggiunte compaiono inoltre la definizione della legge come «prodotto della volontà dei più» e la definizione del «giusto governo» come quello in cui non solo vi siano le leggi, ma vi sia «la stabilita impossibilità di non eseguirle.»

Tutto ciò dimostra, secondo Rando, che la polemica antimontesquiviana di Alfieri – il vero principio animatore del Della tirannide – <<si fonda non su astratte ipotesi libertarie», come affermava la linea interpretativa che da Calosso giunge sino a Nicastro, ma su concetti ben definiti[3]. Concetti che erano del resto presenti nel dibattito costituzionale francese di quegli anni, e che caratterizzavano le tesi dei «democratici» come Mably, Condorcet e Livingston (contrapposte alle tesi <<liberali» di De Lolme e Mounier). Se nella versione originaria del suo saggio Rando si limita a sottolineare la contestualità tra le aggiunte alfieriane e il coevo dibattito costituzionalistico francese, nella versione più recente del suo lavoro (2007) giunge a conclusioni molto più assertive: a suo avviso il Della tirannide

inerisce perfettamente al costituzionalismo europeo della seconda metà del Settecento, essendone la critica «da sinistra» alle tesi montesquiane sulla monarchie e sulla «distinzione dei poteri» il suo limpido, inconfutabile fondamento epistemologico. Quanto dire che Alfieri non contesta, nella Tirannide, ogni forma di governo, ma il dispotismo illuminato come tirannide moderna travestita da «monarchia»: è il grande Montesquieu, insomma, il suo principale interlocutore e non già il vetusto Machiavelli[4].

 

Venendo ai restanti capitoli del primo libro del Della tirannide, Rando riconosce che «lo schema compositivo ripete perfettamente quello della prima stesura, e tuttavia quanto il discorso del manoscritto era generico e striminzito, tanto più le argomentazioni dell’edizione prima diventano “attuali”, nutrite di cultura, ampie e spesso esaustive»[5].

Tra queste Rando evidenzia l’ipotesi di una volontaria rinuncia al potere assoluto (nel cap. III), sottolineando come tale ipotesi venisse avanzata anche da Diderot nei confronti di Caterina II (nell’Osservazione sull’istruzione dell’imperatrice di Russia ai deputati per la elaborazione delle leggi)[6]; rileva come l’accenno all’insufficienza del progresso materiale, quando non sia accompagnato dalla crescita morale, sia una chiara eco della polemica antifisiocratica dell’epoca; osserva come nel capitolo sulla nobiltà, uno dei più rimaneggiati, compaia la nozione di un ceto elettivo che svolga le funzioni dei nobili, nozione che occupa la seconda lettera dei Diritti e dei doveri del cittadino di Mably; rileva le riserve di Alfieri sul sistema inglese, che sono analoghe alle riserve dei costituzionalisti <<democratici»; sottolinea le aggiunte in cui Alfieri fa proprie «le più avanzate tendenze della cultura politico-economica del tempo, assegnando al commercio e all’industria una funzione e un valore fondamentali per il man-tenimento della repubblica»[7]. Infine Rando si sofferma sulle aggiunte relative al problema delle eccessive diseguaglianze economiche, affermando che Alfieri dimostra una «dimestichezza con i problemi dell’economia politica» che era «impensabile nel primo abbozzo»[8].

In conclusione, l’alternativa repubblicana alle tirannidi delineata da Alfieri tra il 1787 e il 1789 risulta «concretamente fondata su precisi e storicamente circostanziati dati socio-economici»[9], che sono «la richiesta di una rigida distinzione dei poteri, il rifiuto del latifondo, il rifiuto del contratto sociale, la tesi delle leggi come “semplice prodotto della volontà dei più”, la proposta di una più equa distribuzione della ricchezza, la critica “protestante” della chiesa cattolica». Dunque l’alternativa repubblicana non ë più affidata, come avveniva nella prima redazione, ad «astratte idealità»1°, ma a una robusta e articolata teoria.

Nel passaggio dal manoscritto all’edizione a stampa il Della tirannide si è arricchito di contenuti, facendosi più oggettivo, scientifico, leggibile e didascalico, tanto da diventare molto diverso dalla prima passionale e soggettiva redazione.

Alfieri vi si rivela – conclude lo studioso siciliano – come il critico italiano più acuto e coraggioso del dispotismo illuminato, di cui mette in luce i limiti storici e istituzionali, non da posizioni astratte, libertarie, nichilistiche o reazionarie, ma tenendosi per molti versi, sul terreno del costituzionalismo moderno.

 

 

Bartolo ANGLANI, La tragedia impossibile, pp.264-265

 

 

In realtà Giuseppe Rando fin dal 1980 aveva affrontato la questione dell’Alfieri  «politico» in termini che mettevano in discussione gran parte delle definizioni e delle analisi venute dopo, quando aveva negato che il poeta appartenesse al mondo dell’«antipolitica» e dell’«anarchia», e aveva sostenuto che invece egli era per un verso «il più politico e il più innovativo degli scrittori del suo tempo» e per un altro «un convinto, radicale sostenitore della “sovranità della 1egge”, il più legalitario, forse, degli scrittori italiani di tutti i tempi». Bastava guardar le date, del resto, per vedere che Alfieri era vissuto nella seconda metà del Settecento e nei primissimi anni dell’Ottocento, «in un’epoca in cui l’Illuminismo aveva già esaurito la sua “carica propulsiva”, rivelandosi incapace di dare risposte soddisfacenti alle nuove esigenze di legalità e di costituzionalismo che emergevano dagli strati più avanzati della società». La “colpa” di Alfieri era dunque quella di essere venuto «dopo l’Illuminismo», di essere stato «un postilluminista (non un antilluminista tout court)», di non aver attaccato «l’Illuminismo trionfante» del «ventennio progressivo» ma di averne registrato, «dopo la crisi storica», il «tramonto» (per usare un concetto di Sergio Moravia), «impegnandosi, in una con i costituzionalisti europei e con l’ultimo Diderot, in un’opera di svelamento dei limiti storici della filosofia e della politica dei lumi, per disingannare quanti ancora ne fossero abbacinati, per indicare le vie della legalità, per uscire definitivamente dal dispotismo (il dispotismo illuminato, caro ai philosophes)», insomma «per andare oltre l’Illuminismo» e non certo «per restaurare alcunché del passato», presentandosi come «il primo liberale moderno» (come già aveva intuito Walter Binni)[10]. Sarebbe troppo lungo riassumere e discutere per esteso le tesi dello studioso, espresse con una nitidezza e una discorsività che non scadono mai nel semplicismo. Rinvio a ciò che ne ho detto nel capitolo Alfieri e Rousseau nel volume L’altro Io, e mi limito qui a riportare la «conclusione» relativa alla stesura della Tirannide, opera che «cosi come la leggiamo nella redazione definitiva, lungi dal configurarsi come un’astratta dissertazione su generici temi di tirannide e libertà, è un trattato politico fortemente polemico nei confronti del dispotismo illuminato, scritto per svelare ai contemporanei la logica di potere dei sovrani del tempo»; che, «nel passaggio dal manoscritto alla definitiva edizione a stampa, si è arricchita di contenuti tipici dell’area del “costituzionalismo democratico” francese della seconda metà del Settecento»: un’opera in cui  Alfieri si rivela «come il critico più acuto e coraggioso del dispotismo  illuminato, di cui mette in luce i limiti storici e istituzionali, non da posizioni astratte, libertarie, nichilistiche o reazionarie, ma tenendosi sul terreno storico del costituzionalismo moderno».[11]

Tempus ruit. Pensando, in particolare, ai miei nipoti, ripubblico, con qualche ritocco, un mio scritto di qualche anno fa, non tanto per rinverdire gli allori (mai troppo esibiti, peraltro) quanto per secondare il mio forte istinto pedagogico: i giovani devono sapere che, nella nostra democrazia (magari «incompiuta», ma pur sempre democrazia), un critico messinese, del tutto estraneo alle camarille accademiche, ha pubblicato, saggi «innovativi» che hanno, di fatto, impresso una svolta fondamentale agli studi sopra uno dei più grandi scrittori della letteratura moderna.

 

 

[1] G. RANDO, Tre saggi alfieriani, Herder, Roma 1980. Una versione aggiornata dei saggi contenuti in questo volume è ora in ID., Alfieri europeo: le «sacrosante» leggi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007, pp. 19-161.

[2] V. PLACELLA, Alfieri comico, Minerva Italica, Bergamo 1973

[3] Nella versione aggiornata di questo saggio, apparsa nel 2007, Rando affermerà anche che la linea interpretativa disposta a riconoscere «impronte più o meno marcate di liberalismo e di moderato laicismo» in Alfieri (e qui il critico si riferisce a Gobetti, Fubini, Binni e Boni) non ha colto la determinatezza di tali concetti e ha finito col negare la presenza di una precisa opzione politica nelle opere di Alfieri.,

[4] Ivi, p. 34.

[5] G. RANDO, Tre saggi alfieriani, cit., pp. 25-26.

[6] ll riferimento a quest’opera sarà centrale anche nella lettura che Rando delinea del Panegirico di Plinio a Traiano. Distaccandosi dalla linea critica prevalente nel Novecento, che vede nel Panegirico un’esercitazione retorica, Rando sostiene che esso sia il travestimento retorico di una concreta tesi politica. Una tesi maturata nella crisi del dispotismo illuminato e rivolta polemicamente contro Montesquieu e i philosophes, che del dispotismo illuminato erano stati sostenitori. Tesi che trova peraltro precisi riscontri nella trattatistica settecentesca e nell’area del costituzionalismo francese, in particolare nell`ultimo Diderot. In questo contesto il Panegirico va considerato, secondo Rando, come la trasposizione nel passato di una precisa e attuale proposta politica (ivi, p. 81), tanto è vero che «nella famosa lettera datata 14 mars 1789 e indirizzata a Luigi XVI, egli riprende (e lo dice) le stesse argomentazioni che Plinio aveva usato per convincere il suo Imperatore e formula al re dei francesi lo stesso invito che Plinio aveva rivolto a Traiano» (ivi, p. 82).

  1. Ivi, p. 47.
  2. Ivi, p. 49.

[9] Ivi, p. 53 (versione 2007, p. 62).

[10] RANDQ, Alfieri europeo, pp. 9-15. Queste parole non risalgono al 1980 ma sono state scritte nel 2007 per la ripubblicazione dei Tre saggi alfieriani nel volume Alfieri europeo, e riassumono efficacemente le ragioni e le intenzioni del libro.

[11] RAND0, Alfieri europeo, pp. 75-76. Christian Del Vento è partito dalle tesi di Rando per approfondire l’analisi del «regime costituzionale» pensato da Alfieri con le modifiche e le aggiunte del 1790 alla Tirannide, sostenendo che attraverso esse l’autore si è concentrato sulle «specificità del “giusto governo”» e ha delineato «in modo sufficientemente preciso il proprio concetto di “repubblica”» come «un “giusto governo” fondato su una rigida distribuzione del potere e su leggi che siano espressione della “volontà dei più”». Del Vento aveva già potuto sostanziare l’ipotesi di Rando circa le fonti della nuova visione della repubblica, e in particolare della critica a Montesquieu, grazie alla «perlustrazione» della biblioteca alfieriana, nella quale si segnala <<la presenza massiccia della letteratura philosophique e, seppure in misura inferiore, della ricca pubblicistica che accompagnò la fase preliminare della rivoluzione». Ora un’indagine più approfondita consente «di precisare, almeno in parte, i debiti che Alfieri contrasse con la pubblicistica di fine Settecento». Non entro nel merito dell’analisi delle fonti, tra le quali accanto ai pubblicisti dell’epoca prerivoluzionaria occupa un gran posto Machiavelli, i cui Discorsi furono acquistati da Alfieri dopo il 1779, e dunque non poterono influire sulla prima stesura della Tirannide (a meno che il poeta non li avesse conosciuti in precedenza per altre vie). Il catalogo dei libri alfieriani conferma l’influsso di Mably, anch’esso ipotizzato da Rando, e dell’opera La Constitution de l’Angleterre dello scrittore ginevrino ]ean Louis De Lolme, che difendeva  la «superiorità del regime inglese» e della sua «forma costituzionale» considerata addirittura «superiore a quella repubblicana» classica ma comunque di fatto «repubblicana»  (DEL VENTO, Il Principe e il Panegirico, p. 149-159),

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