Mi defilo spesso, per pigrizia o per timidezza o per discrezione, dalle passerelle politico-culturali della città dello Stretto, ma riconosco che vorrei essere ricordato (toccando ferro) come un professore universitario, ordinario di Letteratura Italiana, che ha fatto interamente il suo dovere, pur  essendo, per natura e per cultura, assolutamente atipico (quantomeno a Messina) e del tutto estraneo a certi fatui cliché accademici. Tanto che mi sono occupato, con saggi giudicati talora clamorosamente  «innovativi», di molti autori maggiori della letteratura italiana (Alfieri, Leopardi, Verga, Pirandello, Pascoli, Alvaro, Quasimodo, Spaziani, in particolare), ma non ho mai trascurato gli autori locali, riproponendo opere dimenticate o misconosciute dagli addetti ai lavori (penso alle novelle di Boner, agli scritti giornalistici di Enrico Onufrio ma anche ai racconti dispersi di Alvaro) o riconoscendo l’altissima valenza stilistica e linguistica delle poesie e dei racconti dialettali di Maria Costa (prima ignorata dalla critica ufficiale) o segnalando i vertici poetici attinti dalle liriche di Corrado Calabrò o propiziando la pubblicazione di romanzi eccezionali di autori messinesi, prima sconosciuti, che presto potrebbero raggiungere il grande successo di pubblico. E ciò – poco o molto che sia –, in una condizione di dannata solitudine (non c’erano maestri né scuole d’Italianistica a Messina; c’era una scuola di Filologia medievale e umanistica), patita, non voluta, ma vissuta con dignità e fierezza marinaresca, in una “baronale” – almeno in illo tempore – Università di provincia).

Sono stato tuttavia confortato – devo dire – dal consenso di colleghi illustri, perlopiù “continentali”, dalla stima di moltissimi allievi e di molti amici e amiche messinesi e calabresi, cui sono stato felice di offrire gratuitamente supporti, consulenze, consigli, al di fuori dei mei compiti istituzionali.

Posso dire, senza iattanza alcuna, insomma, che non mi sono mai arroccato nella torre d’avorio degli studiosi presunti e ho sempre tenuto vivo il mio rapporto col territorio, sperando fortemente di contribuire al suo miglioramento politico-culturale. Né ho mai sottovalutato le riserve, su questo terreno friabile, di Moravia e di Bárberi Squarotti.

 

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Alberto Moravia era convinto che «poeti ne nascono tre quattro soltanto in un secolo», riferendosi ovviamente ai grandi poeti nazionali. E, se guardiamo alle storie e alle antologie della letteratura italiana, nella fattispecie, non possiamo dargli torto.

Giorgio Bárberi Squarotti, poeta (le sue poesie sono raccolte nei due eleganti volumi di Dialogo infinito, Genesi Editrice, Torino 2017) e critico di poesia contemporanea (basti considerare I miti e il sacro. Poesia del Novecento, Pellegrini, Cosenza 2008), d’altra parte, nel rammaricarsi per la profluvie dei poeti contemporanei, condannava, giustamente, «la stoltezza e la presunzione» di moltissimi di loro, aggiungendo che «di metrica e ritmo non sanno nulla» e affermando che «sono degni di lettura soltanto se hanno la consapevolezza dei loro limiti, con ironia e un po’ di gioco e divertimento» (in La quarta triade, Spirali Edizioni, Asti 2000). Tesi difficilmente contestabile, peraltro.

E intanto, per restringerci nel nostro orizzonte, bisogna prendere atto di una sorta di rivoluzione verificatasi nel costume letterario di Messina, dove, da qualche decennio in qua, fioriscono poeti in abbondanza (io stesso ho avuto modo di “battezzarne” alcuni nel mio Resistere a Messina): quanti mai si erano registrati, invero, nei decenni precedenti. Ora, si potrà legittimamente ritenere che si tratti di poeti minori che non avranno il grande successo critico ed editoriale dei maggiori. Ma nessuno negherà che siano poeti. E che esistono.

Certo, un critico onesto che si trovi, per avverse congiunture, a vivere in provincia, sperimenta abitualmente, nella sua pratica di lettore di poesia, ambedue le condizioni suddette: il piacere sommo – che è anche un privilegio – di dialogare con i testi dei «tre quattro» poeti (grandi) amati da Moravia e la vocazione, quasi rabdomantica, di leggere e possibilmente incoraggiare qualcuno della suddetta profluvie (bollata giustamente da Bárberi), vituperando sempre «la stoltezza e la presunzione» di molti (quante “primedonne” di ambo i sessi!), ma apprezzando la «consapevolezza» dei limiti e la connessa «ironia» di pochi.

Come diceva, realisticamente, quel pirata di mio nonno: “Qua siamo e qua caliamo le reti”. E non è detto – aggiungo io – che non si possano prendere, anche qua, grossi pesci.

 

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