La critica letteraria non è un’attività divinatoria né tampoco creativa, bensì una disciplina condotta sui testi, secondo parametri e modelli codificati, a fini perlopiù conoscitivi, valutativi, descrittivi, comunque anti-impressionistici. È anche assimilabile a un’indagine poliziesca sempre aperta e mai portata a compimento. Giuseppe Petronio era solito parlare dell’opera d’arte come di uno scrigno che si apre con molte chiavi (cioè con molti metodi critici), ma giammai tanto da svelare totalmente e a tutti il suo tesoro. La metafora – indovinata invero – rinvia alla concezione laica, moderata, possibilistica, relativistica della critica letteraria che fu di quel grande maestro (forse, troppo maldestramente tacciato di sociologismo): per lui, nessuna tendenza della critica – nessuna “chiave” – può vantare un qualche primato euristico sulle altre laddove il lavoro del critico, anche sullo stesso testo, può (dovrebbe!) avvalersi di più di una chiave e non è mai pensabile come definitivo, concluso.

Chi scrive frequenta da più di un trentennio i testi leopardiani e si misura, in ispecie, con L’infinito, uno dei vertici della poesia di tutti i tempi e di tutte le latitudini, nonché uno dei testi più complessi, ambigui, polisensi – et pour cause – della letteratura italiana e non solo; la smisurata selva di saggi critici che vi si è stratificata sopra lo dimostra pienamente urbi et orbi.[1]

Questo, che vuole essere l’ultimo (ma non conclusivo, ovviamente) intervento dello scrivente stesso sull’Infinito, nasce dall’ulteriore esplorazione dello Zibaldone (di cui si dirà più avanti): come che sia, si tratta di un’ulteriore e avanzata (nelle intenzioni dello scrivente) apertura dello «scrigno», che non si aprirà mai del tutto. Ma procediamo con ordine, ripercorrendo, per comodità del lettore, il filo ininterrotto delle precedenti ricerche.

Vale forse la pena di ricordare che lo scrivente ha mirato, ab initio, alla ricostruzione del contesto in cui maturò («nel periodo primavera-autunno 1819», secondo Ghidetti),[2] la composizione dell’idillio stesso, nella convinzione che non c’è opera d’arte che si risolva interamente sul piano dell’autonomia e della autoreferenzialità, essendo – a giudizio suo e di molti – il testo e il contesto uniti da un nesso indissolubile e reciprocamente illuminante.

 

***

 

Che cosa scriveva e, quindi, che cosa pensava, nel 1819, il genio di Recanati nei mesi o nei giorni che precedettero l’Infinito? E quale incidenza esercitò sulla composizione del celebre idillio quanto il poeta stesso andava all’epoca maturando? Ebbene, Leopardi scriveva e/o abbozzava, in quel breve lasso di tempo, molte opere e, in particolare, tra il marzo e l’aprile, le due rivoluzionarie «canzoni censurate» (Nella morte di una donna fatta trucidare col suo portato dal corruttore per mano ed arte di un chirurgo – d’ora innanzi Nella morte di una donna – e Per una donna inferma di malattia lunga e mortale), il secondo degli Argomenti di idilli (probabilmente nel giugno) e il pensiero di Zibaldone, 50-51, risalente «con molta probabilità all’aprile del ’19», secondo Pacella[3], nonché gli abbozzi degli Inni cristiani, non rigidamente papalini (nell’estate), e nell’estate-autunno dello stesso anno, il clamoroso abbozzo di Telesilla.

Ma non si finirà mai di sottolineare che, mentre poneva mano, con entusiasmo, a queste e ad altre opere, il giovane Leopardi cambiava radicalmente la sua visione del mondo (o che, per converso, la ricca fioritura di tali opere era conseguente a una sua mutata visione del mondo), ch’era stata, fino a qualche mese prima, imperniata sul classicismo antiromantico in letteratura (codificato nella Lettera ai signori compilatori della Biblioteca Italiana del 1816 e nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica del 1818), sul conservatorismo papalino, austriacante e antifrancese in politica (attestato, se non altro, dall’orazione Agl’Italiani del 1815), sul cattolicesimo antilluministico in filosofia (evidente nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi del 1815). Ne derivavano, per lui, steccati alti e insormontabili – dati, in casa, come assoluti – tra la poetica dei classici e quella degli odiati romantici («materia schifosissima» era, per lui, la poesia romantica in un passo del Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica)[4], nonché ostacoli immani, di presunto ordine etico (accompagnati da profondi sensi di colpa), di fronte alla possibilità di vivere fuori dai canoni della rigida morale cattolica (si pensi alla cantica L’appressamento della morte del 1816).

Vale a stento la pena di ricordare quel passo famoso del Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, in cui si era concentrata la fiera, irriducibile polemica del poeta contro la poesia «sentimentale» dei romantici. Il Recanatese era, difatti, nell’agosto del 1818, solo pochi mesi prima della composizione di Nella morte di una donna, assolutamente convinto del fatto che la «vera e incorrotta sensibilità» fosse quella degli antichi, nei cui versi «non parlava o non parea che parlasse […] il poeta, ma il cuore del poeta», laddove presso i romantici, la cui sensibilità gli appariva «contaminata e corrotta», «parla instancabilmente il poeta, parla il filosofo, parla il conoscitore profondo e sottile dell’animo umano» (p. 936), per l’appunto.

Ebbene, non erano passati sei mesi da quando il classicistico Discorso di un italiano era stato completato che Giacomo Leopardi pose mano alle due «canzoni censurate» (sommamente sgradite al cattolico classicista Monaldo), che dicono molto – certamente più di quanto comunemente si creda – sulla difficile maturazione del poeta. Ma va detto che, pur essendo ambedue perfettamente omologhe sul piano stilistico e linguistico, fu Nella morte di una donna quella che suscitò lo scandalo: si sa della sua genesi occasionale, della censura monaldesca che ne impedì la pubblicazione, di un primo titolo, poi cassato, e di altri dati minuti. La nota approntata da Enrico Ghidetti, per l’edizione di Tutte le opere di Giacomo Leopardi, è sotto questo profilo, esaustiva:

 

Composta a Recanati fra il marzo e l’aprile 1819. Fu inviata, con una lettera del 4 febbraio 1820, al Brighenti perché la stampasse a Bologna con la precedente (ma, secondo un’ipotesi dello Scarpa, cronologicamente successiva a questa) e la canzone al Mai. Nel ms. inviato a Bologna il titolo suona: Nello strazio di una giovane ecc. L’intervento di Monaldo impedì la pubblicazione della poesia (che si riferisce a un fatto di cronaca nera avvenuto poco tempo prima a Pesaro e di cui fu vittima una signora, Virginia del Mazzo) che vide la luce per la prima volta negli Scritti vari e inediti tratti dall’autografo napoletano (p. 1443).

 

Quel che, invece, non pare si sia finora considerato a sufficienza è il carattere scandalosamente anomalo della canzone stessa, che non solo è l’unica leopardiana ispirata ad un fatto di cronaca nera (un delittuoso caso di aborto), ma contraddice, in maniera clamorosa, a tutte le proposizioni di poetica elaborate, fino a quel momento, da Leopardi, presentando aspetti del tutto innovativi rispetto alla sua precedente produzione poetica.

Certo, Nella morte di una donna è l’unica canzone di Leopardi in cui tracimano moduli stilistici enfatici, da romanzo noir, fortemente larmoyants, tipici del peggiore romanticismo «sentimentale»:

 

Misera, invan le braccia

Spasimate tendesti, ed ambe invano

Sanguinasti le palme a stringer volte,

Come il dolor le caccia,

Gli smaniosi squarci e l’empia mano.

Or io te non appello,

Carnefice nefando, uso ne’ putri

Corpi affondar l’acciaro:

Odimi a te favello

O scellerato amante. Ecco non serba

La terra il tuo misfatto, e invan l’amaro

Frutto celasti a la diurna luce,

Cui già di sotto all’erba

Ultrice mano al pianto e al sol riduce (pp. 323-324).

 

Già la trama logico-strutturale della canzone è estremamente indicativa dell’opzione romantica dell’autore, che «parla instancabilmente» nel testo: a) il poeta registra, in un misterioso empito di immedesimazione, l’angoscia che lo pervade «poi ch’il miserando nunzio s’intese» (io); b) interpella la donna «trucidata» e ne rivive lo «scempio» (io/tu); c) investe lo «scellerato amante» per stigmatizzare il suo comportamento (io/tu); d) consola la «sfortunata», che ha lasciato «misera […] e nequitosa vita» (io/tu); e) assolve (contro «l’incauto volgo») l’amore e accusa il «fato», chiamando a testimoni gli «spirti gentili» (io/voi); f) afferma di trovare conforto, l’unico conforto nell’amore (io). Quanto dire che la voce (più che il «cuore») del poeta («filosofo») prevalga sulla parte descrittiva, sulle «immagini», per usare il suo lessico.

È però del tutto evidente che l’autore implicito di questa canzone è proprio il poeta romantico contro cui Leopardi aveva scagliato i suoi strali, acuminati, pochi mesi prima, e che Nella morte di una donna sia un perfetto esemplare di poesia «sentimentale», di quel genere di poesia – vale a dire – da lui stesso, contestata in sommo grado, fino a qualche mese prima.

Giacomo è diventato, in altri termini, l’altro da sé, che aveva cercato di annientare: forma estrema, invero, e assoluta di mutabilità (del genio).

E ha composto un’opera del tutto conforme al modello che aveva dimostrato, pochi mesi prima, di aborrire[5]. Egli non poteva, peraltro, non essere pienamente consapevole della netta diversione, se nel titolo stesso della sua canzone sfoggiava un termine («trucidare»), del quale si era servito, nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, per definire, in sintesi, tutto ciò che deprecava della poesia romantica. Leggiamo:

 

Ora non metterò a confronto la delicatezza la tenerezza la soavità del sentimentale antico e nostro, colla ferocia colla barbarie colla bestialità di quello dei romantici propri. Certamente la morte di una donna amata è un soggetto patetico in guisa ch’io stimo che se un poeta, colto da questa sciagura, e cantandola, non fa piangere, gli convenga disperare di poter mai commuovere i cuori. Ma perché l’amore deve essere incestuoso? perché la donna trucidata? perché l’amante una cima di scellerato, e per ogni parte mostruosissimo? Troppe parole si potrebbero spendere intorno a questo argomento, stante che l’orridezza è l’uno dei caratteri più cospicui del sentimentale romantico […] (pp. 938-939).

 

La coincidenza dei termini e dei concetti – ma anche e soprattutto la polarità dell’atteggiamento mentale -, nel Discorso e nella canzone censurata, è davvero impressionante: «perché la donna deve essere trucidata?» si chiedeva, ma dopo sei mesi intitolava un suo componimento a una donna «fatta trucidare [il corsivo è mio] col suo portato dal corruttore per mano ed arte di un chirurgo»! Vale, a stento, la pena di segnalare come anche l’odiato stilema dello «scellerato amante», già ricusato nel Discorso («perché l’amante una cima di scellerato, e per ogni parte mostruosissimo?») si sia risolutamente insediato nella strofa sopra riportata.

Nell’illustrare, peraltro, nella prima parte del Discorso, le tre «cagioni» del «diletto» che suscita la poesia romantica (e quindi del suo successo presso i lettori), Giacomo aveva condannato duramente gli «eccessi» cui si abbandonerebbero i romantici: «In fatti cercano col candelino, come ho già detto di sopra, quelle più strane cose che si possono immaginare, o sieno semplicemente stravaganze singolarissime per natura loro; o sieno eccessi di qualsivoglia genere, segnatamente misfatti atrocissimi, cuori e menti d’inferno, stermini subissi [sic] orrori diavolerie strabocchevoli…» (p. 927). Non avrebbe mai potuto immaginare che qualche mese dopo avrebbe cercato lui, «col candelino», uno di quei «misfatti atrocissimi» per farne oggetto di una sua poesia.

Non solo: scrivendo Nella morte di una donna, Giacomo Leopardi che, nell’abbozzo del romanzo Diario del primo amore e quindi nella pressoché contemporanea canzone Il primo amore[6], aveva mostrato un’inclinazione tutta immacolata (platonico-cristiana) dell’amore, prendeva atto dell’esistenza di un amore non santificato dal matrimonio e si schierava risolutamente dalla parte della donna, non più peccatrice, ma vittima da compiangere, di due carnefici (il chirurgo e soprattutto lo «scellerato amante»), suscitando lo sdegno di Monaldo. Come a dire, invero, che la canzone, nonostante i suoi limiti stilistici, sottintendeva, da un lato, il rifiuto dei rassicuranti canoni del classicismo antiromantico e, dall’altro, la caduta imprevista, repentina (nel giro di pochi mesi e senza mediazioni documentate), di uno dei più alti steccati ideologici – quello del cattolicesimo tridentino, rigidamente precettistico – da cui il poeta era, da troppo tempo, condizionato.

C’erano, insomma, tutte le ragioni perché Monaldo opponesse la censura e il suo netto rifiuto alla pubblicazione: la canzone gli dovette apparire antitetica alle rassicuranti – per il reazionario classicista – teorie classicistiche del Discorso e poco edificante sul piano dell’etica papalina (Giacomo assolveva, in nome dell’amore, il peccato e la peccatrice) nonché, forse, compromettente per l’esplicito riferimento ad un fatto conosciutissimo.

Meno si capisce, invece, di primo acchito, la rassegnazione di Giacomo alla volontà paterna. Rassegnazione spinta a tal punto da impedirgli di pubblicare, à jamais, la canzone. Ma le lettere inviate, in quella occasione, dal poeta al Brighenti (l’editore bolognese, scelto per la pubblicazione), mentre fanno piena luce sui fatti, ci comunicano intatta la sua amarezza, la sua frustrazione, la rabbia, a stento trattenuta, per quella ‘bocciatura’.

Si tratta di dieci lettere, scritte fra il 4 febbraio e il 9 giugno 1820, in cui sono fissati, con portentosa efficacia espressiva, i due poli entro cui si consuma la sventura della mancata pubblicazione: l’iniziale entusiasmo e la disillusione profonda.

Nelle prime cinque, in gran parte ripetitive, Giacomo discute col suo ‘mecenate’ di problemi tipografici, economici ecc., non nascondendo la sua viva soddisfazione per l’impresa editoriale che lo vede protagonista: egli «non ha punto in pensiero quel nullo o piccolo interesse di tali edizioni» e non «desidera se non di divulgare quei suoi pochi versi»[7], perciò accetta la soluzione che più aggrada all’editore. Il progetto è quello di pubblicare insieme, in un unico volume, «le due prime Canzoni» (All’Italia e Sopra il monumento di Dante) che «erano già stampate» e le tre nuove (nell’ordine: Nella morte di una donna, Ad Angelo Mai, Per una donna inferma di malattia lunga e mortale). L’accordo sembra perfetto.

Senonché, nella lettera del 7 aprile 1820 (la sesta di questo carteggio) il poeta, in preda allo scoramento più profondo, comunica al Brighenti, che «rinuncia intieramente a qualunque progetto così relativamente a questa, come a qualunque altra edizione»[8], adducendo come motivo la sua impossibilità di far fronte agli impegni economici assunti:

 

Ma V.S. forse saprà ch’io sono figlio di famiglia, e quando da principio la pregai di questa edizione non possedeva ancora effettivamente il danaro bisognevole, ma era persuaso che l’avrei ogni volta che avessi voluto, e a tutti quelli che mi conoscono qui o altrove, credo che dovesse parere il medesimo. Dopo la sua compitissima dei 22 p. p. ho conosciuto di essermi ingannato, non avendo in nessun modo potuto riuscire ad accumulare la somma intiera. Abbassarmi non voglio, e non è stato mio costume mai da quando la disgrazia volle mettermi in questo mondo.

 

Non gli resta, dunque, che «seppellirsi sempre più nell’orribile nulla nel quale è vissuto fino ad ora», non senza aver dato libero sfogo alla sua infelicità: «Prego V.S. che non pensi più a me se non come all’uomo il più disperato che si trovi in questa terra, e che non è lontano altro che un punto dal sottrarsi per sempre alla perpetua infelicità di questa mia maledetta vita».

Perché il Leopardi non fosse riuscito «ad accumulare la somma intiera», si capisce nella lettera successiva del 21 aprile: proprio Monaldo, a cui il figlio «non ha mai parlato» del suo progetto, venutone a conoscenza forse per aver «rimescolate le sue carte»[9], vi si era opposto.

Ancora più esplicita la lettera del 28 aprile: Monaldo ha vietato che si ristampassero le due canzoni del ’18 perché già edite, e «ha voluto saper» dal Brighenti «i titoli delle inedite», ponendo il veto sulla prima (Nella morte di una donna), perché − arguisce Giacomo − «s’ immaginò subito mille sozzure nell’esecuzione, e mille sconvenienze del soggetto, che possono venire in mente a chi non mancando di molto ingegno e sufficiente lettura, non ha però nessuna idea del mondo letterario. Il titolo della seconda inedita − aggiunge sardonicamente il poeta − si è trovato fortunatamente innocentissimo. Si tratta di un Monsignore»[10]. A questo punto il Contino avrebbe potuto pubblicare le rimanenti due (cui il padre aveva dato il nulla osta), ma sdegnosamente si rifiutò (accettò, infine, di pubblicare, com’è noto, solo la canzone Ad Angelo Mai).

Al di là del puro dato documentario, questa lettera e le quattro successive si segnalano, peraltro, per la violenta carica contestativa che le attraversa: Giacomo rivela, per la prima volta, con accenti sarcastici o apertamente polemici, la sua totale avversione al padre e alla cultura arretrata di cui è espressione, opponendogli la sua fierezza («Quanto ai dubbi di mio padre rispondo che io come sarò sempre quello che mi piacerà, così voglio parere a tutti quello che sono»)[11] e la sua disperazione: «In 21 anno, avendo cominciato a pensare e soffrire da fanciullo, ho compito il corso delle disgrazie di una lunga vita, e sono moralmente vecchio, anzi decrepito, perché fino il sentimento e l’entusiasmo ch’era il compagno e l’alimento della mia vita, è dileguato per me in un modo che mi raccapriccia. È tempo di morire»[12].

Il sacrificio della «prima inedita» (Nella morte di una donna), in specie, gli dovette pesare molto, se nella lettera del 26 maggio, nel chiarire un equivoco sorto fra lui e il Brighenti, notava: «le dirò con ischiettezza che avendo per quella canzone un certo particolare affetto, il vedere che non riusciva presso di Lei, mi spiacque […]»[13].

Ma la mutabilità del Leopardi − o, se si vuole, la sua capacità di contraddirsi − non finisce di stupire: circa tre mesi dopo questi avvenimenti, da lui vissuti come una tragedia personale (nell’ultima delle dieci lettere, quella del 9 giugno, aveva scritto: «Ma mio padre se voleva dei figli contenti in questo stato, dovea generarli d’altra natura»[14]), mostrava di essersi del tutto ‘ravveduto’ e di condividere, quasi, la posizione del padre e del Brighenti. Certo, le due canzoni «rifiutate» non sono capolavori (e, forse, bene ha fatto Monaldo a vietarne la pubblicazione), ma è incredibile che Giacomo, in così breve tempo, abbia finito con l’introiettare il veto paterno, rinnegando, praticamente, tutto ciò che aveva fatto e detto: «Favoritemi di dire a Giordani − scriveva al Brighenti il 18 settembre 1820 − che le due Canzoni inedite restano del tutto in sua balia, ma stimo che non gli parranno di rilievo, e se forse potrebbero star bene insieme colle altre, forse anche non converrebbe che uscissero sole»[15].

Ma «tutto si tiene», anche nella vita dei poeti. Difatti, il distacco dalla morale cattolica più retriva, all’epoca dominante nel contesto papalino-recanatese, è palpabile anche nella Telesilla, dove quel giovane dottissimo per cui era stata immaginata dai genitori una (casta!) carriera ecclesiastica, giunge a concepire l’idea, molto vicina all’eresia vera e propria, del «peccar quasi innocente». Vediamo.

È, in effetti, nell’abbozzo di Telesilla (redatto tra nell’estate-autunno del 1819 e, quindi, perfettamente contestuale – non si dimentichi – alle due «canzoni censurate», agli appunti sugli Inni cristiani e all’Infinito) che l’opposizione cattolica di amore (sesso) e peccato trova una soluzione inedita. Vediamo.

La Telesilla evidenzia, invero, un’allure da «favola pastorale» (in Per un’avvertenza della Telesilla, Giacomo nota che si «potrà paragonare la Telesilla alle pastorali Italiane, p. e. al Pastor Fido ec.»)[16], ma si tratta, a ben considerare, di un testo post-tridentino, una sorta di Pastor Fido capovolto (e quindi di Aminta capovolta), in virtù dell’insorgenza prepotente, in esso, della questione morale connessa alla colpa nei fatti di cuore. Laddove, infatti, gli amori di Mirtillo e Amarilli e quelli paralleli di Silvio e Dorinda, vanamente contrastati da Corisca e da oracoli divini, si concludono felicemente nell’opera del Guarini (e il lieto fine non manca, certo, nell’Aminta), del tutto tragicamente si conclude la «favola» leopardiana.

La Telesilla, che sviluppa un episodio del Giron Cortese di Luigi Alamanni, riprende, invero, esaltandolo, pur nella precarietà della testura assolutamente provvisoria, il tema del peccato, qui avvertito come senso di colpa conseguente al congiungimento carnale di due amanti adulteri: Telesilla, moglie di Danaino, e Girone, il migliore amico di Danaino. Secondo norma (psicanalitica), il desiderio incentiva il senso di colpa (con il conseguente bisogno di espiazione) e il senso di colpa, a sua volta, ingigantisce il desiderio, in un processo senza fine in cui i due poli del piacere e del dovere si divaricano, incrementandosi a vicenda: il narratore implicito, evidentemente non ignaro del processo, è del pari scisso fra il bisogno di punire, da intellettuale cattolico, i reprobi lussuriosi e la necessità di dare congrua espressione, da poeta romantico, alla malia travolgente dei sensi e alla sua invincibile, umana necessità.

L’abbozzo si compone di una Parte prima già versificata e di una Parte seconda per lo più ancora in prosa. Vi si narra di Telesilla e Girone che, nel ritornare a cavallo a Maloalto, seguiti da Danaino, marito di Telesilla ed amico di Girone, nonché signore di quel castello, càpitano in una radura solitaria, mentre scende la sera. Dopo essersi dichiarati reciproco amore e dopo mille ripensamenti e rimorsi, si abbandonano alla passione. L’indomani mattina vengono raggiunti da Danaino, il quale insospettito uccide la moglie e viene ucciso da Girone.

Leopardi indugia, invero, oltre ogni limite, con tecnica assolutamente innovativa rispetto ai canoni tradizionali della poesia amorosa, sulla tentazione, sui dubbi, sulla rinuncia dichiarata a parole ma non eseguita nei fatti, sulla inarrestabile forza dell’attrazione sessuale dei due giovani e sul loro tardivo, bruciante pentimento.

Della novità cui l’opera aspira è, peraltro, egli stesso consapevole se nel già citato scritto Per un’avvertenza alla Telesilla, così scrive: «Forza e verità moderna della passione, unita per la prima volta alla semplicità e agli altri pregi antichi»[17]. E non si può non sottolineare l’assoluta pregnanza semantica dell’aggettivo (moderna), che accompagna l’euforico binomio (forza e libertà), nonché la chiara consapevolezza, da parte del genio, dell’innovativo («per la prima volta») tentativo di coniugare i contenuti dei moderni con i «pregi» formali degli antichi: la nota può essere assunta, per altri versi, come una limpida dichiarazione di poetica, che pare trascendere il dato immediato per cui è stata scritta.

Ma torniamo alla Telesilla, per rilevare che è proprio nella reiterazione del meccanismo psicologico in cui il desiderio e il pentimento si succedono, incrementandosi a vicenda, il segno della novità del testo, rispetto ai corrispettivi topoi della letteratura amorosa.

La Parte prima, dopo un’ouverture bucolica sui giochi innocenti di due pastorelli e di una pastorella nella radura che sarà teatro della tragedia, procede sul binario dialogico della tentazione d’amore e del repentino pentimento, intervallato dalla constatazione epidermica ora del luogo solitario, ora del silenzio, ora del loro esser «soli» (per la prima e forse unica volta) o dalla rievocazione del primo dardo amoroso, che entrambi ad un tempo colpì. Il meccanismo dualistico di tentazione-pentimento si ripete per ben quattro volte nelle scarne pagine dell’abbozzo. Dapprima è la donna, dopo un momentaneo cedimento, a pentirsi:

 

GIRONE                                                                              Oh cara,

m’ami?

 

TELESILLA

 

Deh taci oh Dio, che non ti senta

veruno, e Danain che nol risappia.

Oimé, che cosa io dissi? io già non dissi

d’amarti ch’ei non lice (pp. 342-343).

 

Quindi, ambedue gli amanti, dopo aver constatato che «l’ora è tarda, // né più secreto loco ha ne’ dintorni» e che «non darassi // a noi tal congiuntura un’altra volta // fin che vivremo», vengono assaliti dal pentimento:

 

TELESILLA

 

Oh Dio, taci: non pensi

che noi bramiamo alfin quel che non lice?

 

GIRONE

 

Tu parli ver, ma certo io sono al tutto

fuori di senno (p. 344).

 

Ma l’insistenza di Girone, il quale è convinto che «s’io non farò quello ch’io bramo // già mai dal pentimento e dal desio // non avrò pace», sembra piegare le residue resistenze di Telesilla: «dunqu’or nessuna // difficoltà ci vieta il desir nostro». La donna però, subito dopo, viene ripresa dai dubbi: «Né pentiremci poi?», coinvolgendo lo stesso Girone, che prima si propone di rinviare («Io nol vo’ far già mai; pur quand’io voglia // farollo un’altra volta») e poi rinuncia del tutto: «Io di me stesso// mi maraviglio e mi vergogno. In somma // io di peccare intendo? Io farò scorno // al caro amico mio? Che cosa è questo // deliberar? si scorda in un momento // la virtù che s’è culta infino ad ora? // […] O Telesilla, questi // disegni son follie, poniam da canto // ogni pensier di questi fatti: ad altro // volgiamo il favellar». È tuttavia l’amore, alla fine, che trionfa:

 

GIRONE

 

Dammi la mano, o Telesilla, oh quanto

se’ bella.

 

TELESILLA

 

Oh caro oh caro: io più non veggio (p. 346).

 

La spirale di peccato e immediato pentimento si chiude definitivamente nella Parte seconda, placandosi – si direbbe – in un’inattesa, pacificata soluzione: «Questo sì ch’è fieriss. travaglio. Oh se mai fatto io non l’avessi! oh come or sarei fortunato! Adunque io punto Non m’inganno? io peccai! Giron, peccasti? Mi pare un sogno. Ahi, ahi, chi l’avria detto? Ch’io dovessi peccar quasi innocente Non fossi stato infin da quando io nacqui? Più ch’io ci penso parmi esser un altro. Oh virtù mia come sei gita. Certo se visto non l’avessi, io mai Creduta non l’avrei così da poco»[18].

L’impressione marcata che se ne ricava è che il poeta abbia trovato, proprio nell’atto di abbozzare la Telesilla (opera segnata da una persistente morbosità adolescenziale per le cose del sesso), l’inedita e quasi contraddittoria ipotesi del «peccar quasi innocente», come possibile alternativa all’autocastrazione imposta dal perentorio Superego della morale tridentina: vi si accompagna, per contrappeso, la scoperta di un io debole («parmi esser un altro»), del tutto opposto a quello indomito e pugnace della Cantica e della canzone All’Italia.[19]

Ove si consideri poi che la letteratura non è mai per Leopardi puro gioco formale o trastullo grazioso della mente bensì sempre traduzione-trascrizione, iuxta propria principia, di sue esperienze vitali, non si potrà non convenire sul fatto che, in quello straordinario 1819, il poeta dovette scoprire, per chissà quali vie, il lato oscuro, peccaminoso – e tuttavia fascinoso, irresistibile – del sesso (dopo l’idillio del Primo amore): l’amore, il desiderio e l’adulterio, che porta all’aborto e alla morte in Nella morte di una donna; l’amore, il desiderio, l’adulterio e l’uccisione degli amanti in Telesilla. L’insistenza sul tema, in componimenti di vario genere redatti o appena abbozzati nello stesso periodo, denuncia l’interesse del ventunenne poeta per tale incandescente materia e forsanche la sua esperienza (o quantomeno la tentazione) dell’amore irresistibile, ma sconveniente, e del relativo rimorso. La sessuofobia sottesa nell’abbozzo coevo di A una fanciulla[20] e il «peccar quasi innocente» di Telesilla sono, in tale ottica, i due antitetici, ma non contraddittori, esiti psicologici di tale scoperta.

E si noti con quanto turbamento lo stesso Leopardi rievoca, nei Ricordi d’infanzia e di adolescenza (redatti nel marzo-maggio del 1819), il piacere, provato in sogno di un bacio (p. 364):

 

sogno di quella notte e mio vero paradiso in parlar con lei ed esserne interrogato e ascoltato con viso ridente e poi domandarle io la mano a baciare […] e io baciarla senza ardire di toccarla con tale diletto ch’io allora solo in sogno per la prima volta provai che cosa sia questa sorta di consolazioni con tal verità che svegliatomi subito e riscosso pienamente vidi che il piacere era stato appunto qual sarebbe reale e vivo e restati attonito e conobbi come sia vero che tutta l’anima si possa trasfondere in un bacio […].

 

Non è, peraltro, insignificante il fatto che, in un pensiero coevo (Zib., 51), Giacomo Leopardi si ponga, per la prima volta nello Zibaldone, il problema del peccato e della innocenza, asserendo: «Intendo per innocente non uno incapace di peccare, ma di peccare senza rimorso». Quanto l’argomento gli stesse a cuore è testimoniato, peraltro, da un pensiero del 14 ottobre 1820 (Zib., 276), in cui, egli stesso, rifacendosi al precedente, aggiunge:

 

Nello stesso modo io non chiamo malvagio propriamente colui che pecca (molti non peccano per viltà, per ignoranza del male, per imperizia e mancanza d’arte nell’eseguirlo, per impotenza fisica o morale o di circostanza, per torpidezza, per abitudine, per vergogna, per interesse, per politica, per cento tali ragioni), ma colui che pecca o peccherebbe senza rimorso.

 

Dove pare di capire che il senso del peccato non fosse più, in quel periodo, per il poeta, automatico e pervasivo, come lo era stato negli anni dei Puerili:[21] innocente è chi, dopo aver peccato, prova rimorso; colpevole («malvagio» nel suo lessico) non è necessariamente chi commette il peccato, ma chi non ha rimorso del peccato commesso. E meno sorprende, alla luce di questi pensieri, la notazione quasi contraddittoria di Girone, nella Parte seconda dell’abbozzo di Telesilla: «Ch’io dovessi peccar quasi innocente». Assai labile e incerto, ad ogni modo, il limite fra peccato e innocenza, di fronte all’amore, in questi testi coevi dell’Infinito.

Ma val la pena di ritornare a Per un’avvertenza alla Telesilla, e a quel paragrafo, in ispecie, in cui il Recanatese trova il modo di fare dichiarazioni assai illuminati sulla sua, invero mediana, posizione letteraria e ideologica fra Classicismo e Romanticismo.

 

Forza e verità moderna della passione, unita per la prima volta alla semplicità e agli altri pregi antichi.

Ma di queste cose discorrerò di proposito altrove e mostrerò che non ignoro o disprezzo né l’arte né la natura, e che forse non merito di essere né scomunicato da’ seguaci veri de’ classici, né deriso da’ filosofi e indagatori delle alte sorgenti del bello.

Perché poi se stimano che la controversia fra i romant. ec. sia stata se il poeta debba meditare e inventare ec. e se la novità ci voglia in poesia ec. sappiano che questa controversia non è stata mai al mondo fra uomini d’intelletto, non solamente dopo nati i romantici, ma in nessun tempo (349).

 

Verrebbe fatto di chiosare che notazioni tanto decise valgono più dei molti libri che sono stati scritti sull’argomento: vi si legge il proponimento del poeta di ritornare sulla «polemica» (il Discorso d’un italiano sulla poesia romantica, completato nell’agosto del ’18, non era stato ancora pubblicato, e non lo sarebbe mai stato, vivente il poeta), per esplicitare, dopo le «canzoni censurate», gli abbozzi, gli argomenti e l’Infinito, la sua scelta di equidistanza (o, al limite, di estraneità) da ambedue gli schieramenti, in perfetta sintonia peraltro con la nota formula neoclassica («Sur des pensers nouveaux, faisons des verses antiques») di André Chènier, il cui nome non compare tuttavia nello Zibaldone: non è forse superfluo sottolineare, a tal riguardo, come una coppia antitetica, pressoché identica, di aggettivi sia presente tanto nel testo francese (nouveauxantiques) quanto nel testo leopardiano (modernaantichi).

Ma il brano trasmette altre due informazioni importanti, su cui non si può sorvolare: a) che Leopardi era consapevole, nel 1819, di essere o di poter essere «scomunicato» da un partito (i classicisti) e «deriso» dall’altro (i romantici), senza meritarlo; b) che la famosa «controversia» non verteva, a suo giudizio, sulla componente razionale, filosofica («meditare») dell’opera d’arte, né sulla imitazione da seguire o meno («novità») «in poesia», questioni, per lui, parrebbe, scontate: la sua posizione in merito era, ad ogni modo, diversa sia da quella dei classicisti pedanti sia da quella dei romantici estremisti: al di fuori o al di sopra degli steccati.

In realtà, l’avvertenza attesta una fase di superamento da parte di Leopardi, anche sul piano teorico, delle posizioni certamente unilaterali e marcatamente antiromantiche del Discorso, costituendo un tassello assai significativo della sua poetica in fieri: si consideri che i romantici, severamente rampognati nel Discorso, vengono qui gratificati come «indagatori delle alte sorgenti del bello» e che la denominazione di «filosofi» non conserva alcunché dell’accezione riduttiva, se non spregiativa, colà evidenziata.

Si registra, insomma, di fronte all’abbozzo di Telesilla, la stessa situazione verificatasi in occasione delle due «canzoni censurate»: mentre elabora testi romantici, incentrati sul binomio amore-morte, Leopardi si lascia alle spalle la poetica del Discorso, avventurandosi in territori sconosciuti e prendendo coscienza, non senza autocompiacimento, di avere scavalcato i limiti imposti, cioè della sua diversità: in questo caso, della sua estraneità a ciascuno dei due gruppi che si scontravano aspramente, in quegli anni, sul Bello e sul Vero. In più, vi si evidenzia la scoperta del «peccar quasi innocente» e quindi della labilità dei confini fra colpa e innocenza nell’etica amorosa.

Va, peraltro, sottolineato che la stessa presa di distanze dal retrivo cattolicesimo papalino dell’epoca pare sottesa agli abbozzi degli Inni cristiani, redatti, come dicevamo, nell’estate del 1819, qualche mese – se non qualche giorno – prima dell’Infinito.

Gli appunti degli Inni cristiani, gli abbozzi e il Discorso intorno agli inni e alla poesia cristiana, anch’essi «databili fra l’estate e l’autunno del 1819» (posteriori dunque ai primi quattro Inni sacri del Manzoni e anteriori alla Pentecoste) lasciano intravedere, difatti, nelle pur esili trame, due nitidi vettori tematici, con le corrispettive nuances stilistiche: quello della religiosità popolare, tuttavia interna all’ortodossia cattolica, che non avrebbe avuto alcun esito nella vita e nell’opera del poeta, e quello (ben altrimenti fertile nei terreni poetici leopardiani) della miseria, della fragilità, della debolezza umana, come stemma dei figli d’Adamo, cui il Salvatore guarda tuttavia con grande comprensione[22].

Si prefigurano, negli appunti, difatti, rituali «invocazioni a Maria per la povera Italia» e «opinioni contadinesche […] intorno a certe feste». Ma è particolarmente degno di attenzione il riferimento esplicito al progettato recupero di «tutto quel poetico che ha la superstizione nella materia dei spiriti e dei geni» (p. 337): quanto basta, in effetti, per inferire lecitamente che il poeta, lungi dal rigorismo ortodosso dei Puerili e del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, abbia finito col recepire, sul piano concreto della prassi poetica, insieme con gli eccessi «sentimentali» delle due canzoni «censurate», anche i postulati romantici sulla religione e sul meraviglioso della religione popolare, nella fattispecie.

Nell’abbozzo dell’Inno al Redentore e nel Supplemento al progetto degl’inni Cristiani si esplicita, invece, la visione non trionfalistica, bensì solidale, partecipe della religione cattolica: «Pietà di tanti affanni, pietà di questa povera creatura tua, pietà dell’uomo infelicissimo, di quello che hai redento, pietà del gener tuo, poiché hai voluto aver comune la stirpe con noi, esser uomo anche tu» (ibid.).

Emblematico appare anche, in tale ambito, come dicevamo, il tema della infelicità dei figli di Maria: «A Maria. È vero che siamo tutti malvagi, ma non ne godiamo, siamo tanto infelici» (338). Il nodo che lega peccato (la malvagità) e infelicità è, invero, molto stretto in questi nudi lacerti.

 

***

 

 

Leopardi ebbe piena coscienza della sua svolta, in quel 1819, in direzione anticlassicista (opposta alla cultura paterna e papalina), se in un denso pensiero del 2 luglio 1820, non si perita di fare – forsanche con una punta di virile sconforto – un profondo consuntivo della sua esperienza “romantica”.[23] Vale pena di rileggere:

 

La mutazione totale in me, e il passaggio dallo stato antico al moderno, seguì si può dire dentro un anno, cioè nel 1819, dove […] cominciai a sentire la mia infelicità […], cominciai ad abbandonare la speranza, a riflettere profondamente sopra le cose […], a divenir filosofo di professione (di poeta ch’io era), a sentire l’infelicità certa del mondo, in luogo di conoscerla, e questo anche per uno stato di languore corporale, che tanto più mi allontanava dagli antichi e mi avvicinava ai moderni. […]. E s’io mi metteva a far versi, le immagini mi venivano a sommo stento […]; bensì quei versi traboccavano di sentimento (I. Luglio 1820): Così si può ben dire che in rigor di termini, poeti erano se non gli antichi, e non sono ora se non i fanciulli, o i giovanetti, e i moderni che hanno questo nome, non sono altro che filosofi. Ed io infatti non divenni sentimentale, se non quando perduta la fantasia divenni insensibile alla natura, e tutto dedito alla ragione e al vero, in somma filosofo (il corsivo è mio).

 

E se ancora concede qualche cosa alla cultura e ai termini («poeti erano gli «antichi», «filosofi» «i moderni») del Discorso di un italiano del 1818, non c’è dubbio alcuno che la coscienza della «mutazione» sia radicale.

Si consideri peraltro che già in Zib. 72, Leopardi aveva affermato: «Tutto è nulla al mondo […], è un nulla anche questo mio dolore», di cui Pacella sottolinea la vicinanza, forsanche cronologica, con la lettera al Giordani del 19 novembre 1819. [24] Poco oltre, in un passo di Zib. 85 che lo stesso Pacella collega alla canzone Ad Angelo Mai e alla lettera al Giordani del 6 marzo 1820),[25] il poeta confessava: «Io era spaventato nel trovarmi in mezzo al nulla, un nulla io medesimo. Io mi sentiva come soffocare, considerando e sentendo che tutto è nulla, solido nulla».[26] Dichiarazioni molte prossime, invero, a Ecclesiaste, I, 1-2, dacché il costrutto leopardiano («Tutto è nulla») coincide con quello biblico («tutto è vanità»), mentre l’alternanza di «nulla» e «vanità» (in Zib. 102-103) di Leopardi rimanda alla «vanità delle vanità» di Kohelet. Il poeta era ancora, in effetti, dentro l’alveo della religione cattolica.

Se ne deduce, pertanto, che fu proprio la svolta etica e, nel contempo, letteraria, esperita nelle due «canzoni censurate», nell’abbozzo di Telesilla e negli appunti degli Inni sacri, a suggerire al poeta il pensiero di Zib. 102-103, del 20 gennaio1820, in cui individuava tre «maniere di vedere le cose»: la prima sarebbe, quella «degli uomini di genio e sensibili […], che trovano da per tutto […] un rapporto continuo delle cose coll’infinito e coll’uomo [….], in somma di quelli che considerano il tutto sotto un aspetto infinito» (una maniera idealistica, spiritualistica, metafisica): la seconda è «di quelli per cui le cose hanno corpo senza aver molto spirito» (materialistica, dunque); la terza è quella , «dei filosofi e degli uomini per lo più di sentimento che dopo l’esperienza e la lugubre cognizione delle cose dalla prima maniera passano di salto a quest’ultima senza toccare la seconda e trovano e sentono dappertutto il nulla e il vuoto e la vanità delle cure umane e dei desideri e delle speranze e di tutte le illusioni inerenti alla vita per modo che senza esse non è vita»).

Proprio lui era, in effetti, passato, «di salto» (in pochi mesi), dalla prima maniera «di vedere le cose» (quella idealistico-classicistica, antilluministica e antiromantica della cultura papalino-monaldesca) alla terza (segnata dal nichilismo biblico), quella in cui i «filosofi» e gli «uomini per lo più di sentimento […] trovano e sentono dappertutto il nulla e il vuoto e la vanità delle cure umane e dei desideri e delle speranze e di tutte le illusioni inerenti alla vita».

Una situazione prenietzschiana, al postutto, nella quale la realtà, crollati i dogmi e i filtri dell’assolutismo classicistico, dell’idealismo e del cattolicesimo papalino (la prima maniera «di vedere le cose»), appariva al genio di Recanati, per la prima volta nella letteratura moderna (!), nella sua nudità antimetafisica (il «nulla»).

Le dieci lettere al Brighenti (di cui supra, pp. 5-6), scritte – è bene ricordarlo – proprio fra il 4 febbraio e il 9 giugno 1820, ratificano, per altri versi, la prima “ufficiale” presa di distanze dal padre e dalla sua cultura classicistica.

Né può essere casuale il fatto che, in quello stesso lasso di tempo, il Recanatese, avviasse, in un lungo pensiero dello Zibaldone, 165-172 del «23. Luglio 1820», una profonda meditazione sulla natura (che sarebbe «più materiale che spirituale») della «nostra tendenza verso un infinito che non comprendiamo», poi ripresa in Zib. 472-473 del «4. Gennaio 1821», con l’esplicita definizione di «infinito» come «indefinito» («l’anima confonde l’indefinito con l’infinito; non però comprende né concepisce effettivamente nessuna infinità»), che continuerà nel pensiero 1429-1431 del «I. Agosto» dello stesso anno, mirata a negare, appunto, per gli uomini, l’esperienza-conoscenza dell’infinito, e a riconoscere a loro, tutt’al più, quella dell’indefinito («una sensazione indefinita, l’idea di un tempo indeterminato, dove l’anima si perde, e sebben sa che vi sono confini, non li discerne, e non sa quali sieno»),[27] appunto. In questo stesso pensiero, peraltro, il poeta richiama, a conferma della sua intuizione, proprio il suo più famoso idillio: «Circa le sensazioni che piacciono pel solo indefinito puoi vedere il mio idillio sull’infinito [corsivo e minuscolo nel testo], e, richiamar l’idea di una campagna arditamente declive in guisa che la vista in certa lontananza non arrivi alla valle […]. Una fabbrica una torre ecc. veduta in modo ch’ella paia innalzarsi sola sopra l’orizzonte, e questo non si veda, produce un contrasto efficacissimo e sublimissimo tra il finito e l’indefinito ec. ec. ec.».

Ci sono tutte le condizioni, insomma, per ritenere che l’insistenza di Leopardi sull’infinito, come illusione dei sensi (che confondono l’indefinito con l’infinito), sia interna alla contestuale polemica anticlassicistica e antidealistica delle opere scritte o abbozzate nel 1819. A questa altezza (1819-21), certamente anteriore alle Operette morali, egli si distanzia, di fatto, notevolmente, dal cattolicesimo papalino, pur restando ancora nei confini del cattolicesimo: un cattolico progressista, volendo, o comunque dissenziente.

Vale tuttavia la pena di sottolineare che la meditazione di Leopardi sull’infinito (impossibile) si protrasse fino a Zib. 4274-4275 del «7. Apr. Sabato di Passione. 1827», dove si legge che, non potendosi provare l’infinità dell’universo, non si può provare nemmeno l’esistenza di un «creatore di esso», per concludersi con Zib.4292 del «20. Settembre 1827» – aveva già alle spalle le Operette morali – con un suggello perentorio: «Il credere l’universo infinito, è un’illusione ottica». Dove pare prefigurarsi, invero, una posizione prossima all’ateismo tout court.

Tale vasta problematica filosofica, certamente antidealistica e antimaterialistica, coinvolse, ad ogni modo, profondamente, il poeta, lungo anni cruciali (1819-1821) della sua vita, essendo peraltro collegata, come dicevamo, da lui stesso al «suo idillio».

Certo, a nessuno sfugge oramai che, proprio in questo contesto, estremamente innovativo per il Recanatese, nasce l’Infinito come avvertenza dell’«indefinito», cui è sotteso, certamente, per testimonianza diretta dell’autore, il rifiuto di ogni presunto, idealistico «infinito» e parimenti – si direbbe – di tutti gli assoluti: «l’anima confonde l’indefinito con l’infinito; non però comprende né concepisce effettivamente nessuna infinità» (ved. supra, Zib. 472-473 del «4. Gennaio 1821»). Di tale confusione egli stesso si avvide, probabilmente in quello straordinario 1819, a Recanati, dove un ostacolo (l’«ermo colle» e la «siepe») impediva di vedere l’orizzonte producendo, appunto, «un contrasto efficacissimo e sublimissimo tra il finito e l’indefinito» (ved. supra)».

La composizione de L’infinito segna, in altri termini, un confine, un prima e un dopo: prima c’è la siepe (il limite, il contingente) e l’illusione dell’infinito (l’assoluto), cioè la condizione degli idealisti, dei cattolici integralisti, come Monaldo e come Giacomo fino al 1818; dopo c’è la scoperta esaltante, antidealistica, quasi nichilistica, che l’infinito, prodotto dalla fallacia dei sensi, è solo l’indefinito, «una sensazione indefinita, un tempo indeterminato, dove l’anima si perde, e sebben sa che vi sono confini, non li discerne, e non sa quali sieno».[28]

Ora, senza volere stabilire nessi automatici tra testo e contesto,[29] non c’è dubbio alcuno che le opere contestuali a L’infinito, rilevate da chi scrive, e le esplicite dichiarazioni rese dallo stesso poeta sulla svolta del 1819, costituiscano fatti da cui non si può prescindere: «l’infinito», in specie, che Leopardi adotta come titolo immensamente poetico (molto suggestivo, invero) del suo idillio, associandolo poi a «silenzio» nel verso 10 («quello / infinito silenzio»), non vale come antonimo di «finito», secondo la sua etimologia, né come pensiero «nobile», «non », nell’accezione filosofica (proposta, di recente, da Massimo Cacciari su YouTube), né come vocazione religiosa (suggerita da Giuseppe Savoca),[30] né come opzione materialistica, avallata da Cesare Luporini, da Sebastiano Timpanaro e da Vanna Gazzola Stacchini,[31] né come «esperienza psicologica effettiva che il pensiero non riesce a dominare», avallata a da Romano Luperini[32], bensì – più semplicemente – come sinonimo sensistico di «indefinito», secondo l’esplicita, indefettibile definizione dello stesso Leopardi.

Si direbbe invero che la scoperta del «nulla» e la coscienza del poeta di essere diventato «filosofo» (dopo le «canzoni censurate»), siano tutt’uno col passaggio «di salto» dal classicismo idealistico al nichilismo (biblico), cioè dalla «prima maniera di vedere le cose» alla terza, con la conseguente presa di distanze dall’«infinito» (coltivato degli «uomini di genio e sensibili» come Monaldo, ma che non esiste o non si può conoscere): da qui vengono, per certo, sufficienti e inequivocabili informazioni sulla genesi e sul senso profondo de L’infinito, il cui autore implicito è, senza meno, un intellettuale post-classicista, antidealista, certamente critico  nei confronti di certe modalità “tridentine” del cattolicesimo, benché ancora interno alla religione cristiana.

Ove si ponga, poi, mente al fatto che il Recanatese redasse («con molta probabilità» nell’aprile del ’19) il pensiero di Zibaldone, 50-51 e, probabilmente nel giugno dello stesso anno, il secondo degli Argomenti di idilli – due testi che vanno assunti come l’avantesto dell’Infinito –, si deve dedurre che il superamento dell’ottica familiare, idealistico-classicistica, si saldò perfettamente, nel corso della testura, con la “scoperta” simultanea, dell’indefinito spaziale per via visiva (già esperita nel secondo degli Argomenti di idilli)[33] e dell’indefinito temporale, per via uditiva (come in Zibaldone, 50-51)[34].

E ci si chiede se, a fronte di tale vasta, complessa rivoluzione (più che «conversione»), si possano ridurre nei termini, davvero angusti, dell’interpretazione denotativa, letterale del testo sia lo spauramento iniziale («[…] ove per poco / il cor non si spaura») sia il «naufragar» (che «m’è dolce in questo mar») o se non sia piuttosto ipotizzabile, una chiave di lettura assolutamente metaforica del testo stesso.

Percorre, invero, l’idillio una forte dialettica tra realtà (vv. 1-3) e indefinito spaziale (vv. 4-8), nonché tra realtà (vv. 8-11) e indefinito temporale (vv. 11-13), che si pacifica, però, nell’ultimo “momento” (vv. 13-15), con il dolce «naufragar» del poeta nel mare dell’«immensità»: cinque “momenti”, dunque (non i quattro indicati da Marchese),[35] contrassegnati, nelle prime due coppie antitetiche dagli shifter deittici (questo/a vs quella; quello vs questa), indicativi l’uno della realtà vicina all’io poetante, l’altro della immaginazione lontana, secondo modalità sensistiche, [36] e, nell’ultimo “momento”, dai deittici questa/questo riferiti all’«immensità» e al «mare» esperiti, hic et nunc, in quel 1819, dall’io poetante.

Ora, nonostante l’esplicito rinvio del poeta al «suo idillio», per quanto attiene alle «sensazioni che piacciono pel solo indefinito», non c’è alcun segnale, nel testo, che possa far pensare alla effettiva, reale, inequivocabile scoperta, da parte di Leopardi, in quell’anno, dell’«infinito» come «indefinito» (più adatta ad un trattato filosofico, invero), laddove il solo «infinito» campeggia nel titolo e nel verso 10 come aggettivo, insieme con il sinonimo «eterno» del verso 11. Evidentemente, il Recanatese optò per la forma lessicale della tradizione («infinito»), caricandola tuttavia del senso nuovo, da lui individuato, di «indefinito»: dovette ritenere che la vaghezza delle immagini e dei concetti («interminati spazi», «sovrumani silenzi», «profondissima quiete», «infinito silenzio», «eterno», «morte stagioni», «immensità») evidenziassero, di per sé, il suo assunto antidealistico, evitando che i tradizionalisti – e lo stesso cattolicissimo Monaldo – potessero riconoscervi l’infinito degli idealisti e/o dei cattolici integralisti (peraltro, era ancora «figlio di famiglia», abitante nella casa paterna, in quel miracoloso 1819): di ciò dovrebbe tener conto il lettore.[37]

D’altra parte, la dinamica sensistica che innesca, nell’idillio, l’appercezione dell’infinito spaziale e dell’infinito temporale, è esattamente quella illustrata dal Recanatese nel succitato pensiero di Zib. 1429-1431: «una sensazione indefinita, l’idea di un tempo indeterminato, dove l’anima si perde, e sebben sa che vi sono confini, non li discerne, e non sa quali sieno».

Se le cose stanno così, nulla vieta di ritenere che nel «mare», metafora dell’«immensità» (termine preferito, da ultimo, dall’autore stesso, a «infinità»)[38] dei due indefiniti, sia anche confluita, nell’atto della testura, la visione della straordinaria, esaltante, nuovissima condizione post-idealistica, post-classicistica, post-tridentina in cui il poeta si trovò «di salto» nel 1819 e che gli permise, tra l’altro, di demistificare l’idea tradizionale di infinito e quindi la scoperta degli indefiniti stessi: metafora di una metafora,[39] dunque, o meglio metafora duplice, bivalente.

Lo scoramento iniziale e la gioia finale potrebbero nascere, insomma, per geniale, inedita transcodifica – Leopardi non era un agrimensore, né un cronologo, né un critico letterario –, tanto dall’«immensità» dei due indefiniti quanto dall’«immensità» della «mutazione» verificatasi, all’epoca, nella vita di Giacomo Leopardi e nella sua maniera di «vedere le cose». In tale ottica, le immagini visive e auditive dell’indefinito spaziale e dell’indefinito temporale sarebbero da considerare come i vettori stilistici di un pensiero (di fatto, una vera e propria rivoluzione filosofica) nel suo farsi poesia.

 

***

 

Letto, quindi, alla luce del suo innegabile contesto e delle interazioni possibili di testo e contesto, l’Infinito si ripropone, dopo duecentosei anni, come l’entusiastico «canto di liberazione» di un giovane poeta che, nella Recanati classicistica e papalina, a ventuno anni, ha scavalcato «di salto» (Zib. 103) le strettoie dell’asfittica cultura in cui era vissuto, giungendo, dopo un attimo di smarrimento («ove per poco // il cor non si spaura»), all’appercezione gioiosa dell’essere come «indefinito» spazio-temporale (in antitesi all’infinito idealistico), contro tutti i limiti ideologici, estetici o religiosi («e il naufragar m’è dolce in questo mare»).[40] E ciò, quasi cent’anni prima di Nietzsche.

Da qui inizia, nei fatti, la storia della poesia leopardiana: poesia nutrita di pensiero o poesia filosofica, se Don Benedetto non si agita nella tomba. Una poesia che ancora invade il mondo, come quella che ha inaugurato, nei modi del «pensiero poetante», una delle vie maestre della lirica moderna (e del sapere moderno), ampliando la conoscenza del mondo e dell’uomo nel mondo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] Si veda almeno Cesare LUPORINI; Leopardi progressivo, Editori Riuniti, Roma 2018 (I edizione 1947); Sebastiano TIMPANARO, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Nistri-Lischi, Pisa 19692; W. BINNI, Leopardi poeta delle generose illusioni e della eroica persuasione, in G. LEOPARDI, Tutte le opere, cit, p. XXV ss.; Vanna GAZZOLA STACCHINI, Leopardi politico, Laterza, Bari, 1974; Jurij Mihajlovic LOTMAN – Boris A. USPENSKIJ, Tipologia della cultura, Bompiani, Milano 1975; Giuseppe SAVOCA, L’estasi dell’Infinito, in ID., Leopardi. Profilo e Studi, Leo S. Olschki Editore, Firenze 2009; Romano LUPERINI, Pietro CATALDI, Lidia MARCHIANI, Franco MARCHESE, Leopardi: il primo dei moderni, Palumbo, Palermo 2019; Giuseppe RANDO, L’infinito: dalla «selva» dei limiti (familiari, estetici, religiosi) all’«immensità» illimitata dell’essere, in Esperienze Letterarie, 4, (2019), pp. 9-25.

[2] Enrico GHIDETTI, Note ai testi, in Giacomo LEOPARDI, Tutte le opere, I, con introduzione e note di Walter BINNI, con la collaborazione di Enrico GHIDETTI, Sansoni Editore, Firenze 1983, p. 1426 (sono di Ghidetti le datazioni di opere e abbozzi leopardiani, indicate in questo paragrafo). Si rimanda a detta edizione nelle citazioni (di opere leopardiane) che seguono.

[3] Si veda G. LEOPARDI, Zibaldone di pensieri, Edizione critica e annotata a cura di Giuseppe PACELLA, Garzanti, Milano 1991, I, p. 70 (vi si rimanda nelle citazioni zibaldoniane che seguono).

[4] Ved. G. LEOPARDI, Tutte le opere, cit., p. 937.

[5] W. BINNI, Leopardi poeta delle generose illusioni e della eroica persuasione, in G. LEOPARDI, Tutte le opere, cit., osserva (pp. XXXIV-XXXV, nota 3): «II Leopardi in quel periodo mirava ad adeguarsi al metodo dei classici e a distinguersi da quello dei classicisti mitologici trattando argomenti del proprio tempo e non di quello degli “antenati” […]. In realtà tale metodo lo portava molto vicino proprio a quel patetico persino “feroce” da lui deprecato nei romantici nel Discorso di un italiano. Conferma, questa, di un’inevitabile attrazione del gusto stesso che il Leopardi combatteva in sede polemica».

[6] Secondo E. GHIDETTI, Note ai testi, cit., p. 1426, il diario e la canzone furono composti immediatamente «dopo la visita compiuta ai Leopardi dalla cugina Gertrude Cassi, tra l’11 2 il 14 dicembre 1817».

[7] G. LEOPARDI, Epistolario, I, a c. di Franco BRIOSCHI e Patrizia LANDI, Torino, Boringhieri, 1998, p. 375.

[8] Ivi, p. 388.

[9] Ivi, p. 394: Monaldo ebbe, delle canzoni, una conoscenza più ampia di quanto non mostri di credere Giacomo: cfr. Mario MARCAZZAN, Due canzoni..., cit., p. 788.

[10] G. LEOPARDI, Epistolario, cit., p. 399.

[11] Ivi, p. 395.

[12] Ibid.

[13] Ivi, p. 406.

[14] Ivi, p. 410.

[15] Ivi, p. 443.

[16] G. LEOPARDI, Tutte le opere, cit., p. 349. L’abbozzo «risale all’estate-autunno del 1819», secondo E. Ghidetti.,ivi, p. 1445. Sulla Telesilla, si veda Angelo MONTEVERDI, Frammenti critici leopardiani, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1967, pp. 25-47; Mario VITALE, La coscienza della slealtà (a proposito del dramma «Telesilla» di Giacomo Leopardi), in ID. Humanitas… Sparse vestigia, Cagliari, Ed. Sarda Fossataro, 1974, pp. 99-108; Gennaro SAVARESE, Un dramma “in fieri”: gli appunti per la «Telesilla», in L’eremita osservatore, Saggio sui «Paralipomeni» e altri studi su Leopardi, Liviana Editrice, Padova 1987, pp. 285-305; G: RANDO, Nei pressi dell’«Infinito» e altri saggi leopardiani – In Appendice l’edizione critica dell’orazione Agl’Italiani, Aracne editrice, Roma 2015, pp. 130 ss.

[17] G. LEOPARDI, Tutte le opere, cit., p. 349.

[18] Ivi, p. 347.  Il punto fermo dopo «innocente» manca nel testo.

[19] Ved. G. RANDO, Nei pressi …, cit., 67-82.

[20] Ved. G. LEOPARDI, Tutte Le opere, cit. pp. 335-336; G. RANDO, Giacomo Leopardi: il «salto» dell’Infinito, in «Studi sul Settecento e L’Ottocento», XIII (2018), pp. 59-61.

[21]Vale a stento la pena di ricordare la testimonianza diretta di Moraldo Leopardi, che nella «lettera memoriale» a Ranieri ricorda come nel 1812 il quattordicenne Giacomo, in preda a scrupoli religiosi, «temeva di camminare per non mettere il piede sopra la croce nella congiunzione dei mattoni».

[22] Sugli Inni cristiani si va stratificando una ricca letteratura critica: si rinvia, fra gli altri, a Giovanni GETTO, Gli inni cristiani, in Saggi leopardiani, Firenze, Vallecchi, 1966, pp. 52-57; Caterina. DOMINICI, Riflessioni sull’abbozzo multiplo degli «Inni cristiani», in AA. V., Le città di Giacomo Leopardi, Atti del VII Convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati 16-19 novembre 1987), Firenze, Olschki, 1991, pp. 237-243; ID. Gli «Inni cristiani» di Giacomo Leopardi, Abano Terme, Francisci, 1991.

[23] Si veda G. LEOPARDI, Zibaldone di pensieri, I, cit. p. 147 [144]

[24] Ved. G. LEOPARDI, Zibaldone di pensieri, cit., III, Note, p.508.

[25] Ivi, p.511.

[26] Si veda al riguardo Emanuele SEVERINO, Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, Milano, Rizzoli, 1990, 37-43.

[27] L’esistenza ontologica dell’infinito, con il conseguente dualismo tra infinito e finito, affermata, dapprima, da Platone, percorre tutta la cultura occidentale fino a Nietzsche (ved. Emanuele SEVERINO, La filosofia moderna, Rizzoli, Milano 2004; Il nulla e la poesia…. cit,): forse, in questo pensiero dello Zibaldone, è la prima, manifesta reazione a tale predominio platonico.

[28] Vale la pena di ricordare, a questo proposito, che Luigi BLASUCCI, nel famoso saggio Leopardi e i segnali dell’infinito (Il Mulino, Bologna 1985, pp. 97 ss.), aveva individuato, sulla scorta di Tilgher, un «processo narrativo» all’interno del celeberrimo idillio leopardiano, ma aveva considerato di tipo «iterativo» e non «singolativo» (Genette) la narrazione del processo interiore presente nell’idillio, asserendo quindi che «tutti i verbi al presente della lirica […] saranno da intendersi come presenti iterativi: ‘sono solito fingermi nel pensiero’, ‘sono solito andare comparando ecc.» e attenuando la «portata avversativa» del «Ma» del verso 4, nonché il senso pregnante dell’avverbio iniziale («Sempre») e dell’iniziale, unico verbo al passato remoto («fu»).

Sarebbe, in altri termini, L’infinito una sorta di racconto atemporale (scritto al tempo presente, con un solo, innocuo ricorso al passato remoto, ma praticamente senza un prima e un dopo) e irenico, quasi paradisiaco, lineare (senza alcuna avversione-diversione), con un solo protagonista (l’io poetante) e senza antagonista alcuno. Leopardi, insomma, sarebbe stato solito fingersi «nel pensiero» («interminati / spazi», «sovrumani / silenzi, e profondissima quiete») e andare «comparando» «quello / infinito silenzio a questa voce», sempre e ripetutamente, a prescindere da ogni particolare, singolo evento e momento della sua vita, dacché, alla fine, «ciò che si narra nel testo è la rivelazione dell’infinito, sia pure nella finzione del pensiero». Si tratterrebbe, dunque, di un’avventura spirituale fuori da ogni condizionamento esterno: mentale per l’appunto. Ma lo stesso Giacomo Leopardi asserisce, nei pensieri sopra citati dello Zibaldone, che una «mutazione» effettiva e concreta ci fu, in quell’anno eccezionale, per lui, che divenne «filosofo» (nelle canzoni «censurate», negli abbozzi degli Inni cristiani e nella Telesilla) e scoprì allora, contestualmente (non prima!), contro l’idealismo dominante nella cultura monaldesca, che «l’anima confonde l’infinito con l’indefinito», rinviando esplicitamente al suo «idillio sull’infinito» circa «le sensazioni che piacciono pel solo indefinito». Quanto dire, insomma, che il suo infinito era, per lui, alternativo all’idea di infinito accettata nel suo milieu e da lui stesso condivisa (o almeno non contestata) fino a qualche mese prima. Ciò posto, si può ritenere che la narrazione dell’Infinito sia, a tutti gli effetti, di tipo propriamente «singolativo», che il «Ma» iniziale del quarto verso conserva tutta la sua «portata avversativa», che i verbi al tempo presente non sono affatto «iterativi», che il «Sempre» e il «fu» non scolorano nella «prospettiva di una durata indefinita», ma mantengono la loro inequivocabile, salda dimensione temporale.

[29] È un eccesso cui non sempre si sfugge: chi scrive non ne è stato immune.

[30] Ved. supra, nota 1

[31] Ibid.

[32] R. LUPERINI, P. CATALDI, L. MARCHIANI, F. MARCHESE, Leopardi il primo …, cit., pp. 123-131.

[33] Vi si legge. «Galline che tornano spontaneamente la sera alla loro stanza al coperto. Passero solitario. Campagna in gran declivio veduta alquanti passi in lontano, e villani che scendono per essa si perdono tosto di vista, altra immagine dell’infinito» (G. LEOPARDI; Tutte le opere, I, cit, p.336).

[34] Vi si legge: «Dolor mio nel sentire a tarda notte seguente al giorno di qualche festa il canto notturno de’ villani passeggeri. Infinità del passato che mi veniva in mente, ripensando ai Romani così caduti dopo tanto romore e ai tanti avvenimenti ora passati ch’io paragonava dolorosamente con quella profonda quiete e silenzio della notte, a farmi avvedere del quale giovava il risalto di quella voce o canto villanesco» (Zib. 50-51). Sui due testi, ci sia concesso di rinviare ancora a G. RANDO, Giacomo Leopardi: il «salto» …, cit., pp.  60-61.

[35] Ved. Angelo MARCHESE, Letteratura Italiana Intertestuale. Storia e antologia, 4, Casa editrice G. D’Anna, Messina Firenze 2001, p.451.

[36] Ved. V. GAZZOLA STACCHINI, Leopardi politico, cit. Il sensismo secentesco (preilluministico) era stato accolto nella cultura cattolica ed era entrato nella formazione di Leopardi: mi si consenta di rinviare ancora a G. RANDO, Nei pressi dell’Infinito …, cit., pp.17 ss.

[37] Secondo Alberto FOLIN, Il celeste confine. Leopardi e il mito moderno dell’infinito, Marsilio, Venezia 2019, la forma di conoscenza immaginata ne L’infinito si fonderebbe sull’«invisibile», tuttavia estraneo a ogni connotazione religiosa.

[38] Ved. G. LEOPARDI, Canti, Edizione critica di Emilio PERUZZI con la riproduzione degli autografi, Rizzoli Editore, Milano 1981, p. 274.

[39] Ma in senso diverso da quanto ritiene A. MARCHESE, Analisi strutturale dell’«Infinito», in Introduzione alla semiotica della letteratura, SEI, Torino 1981, pp. 215 ss.

[40] A nessuno sfugge, peraltro, la prossimità degli ossimori «naufragar […] dolce» dell’Infinito e «peccar quasi innocente» di Telesilla: sperimentava, invero, in quell’anno, il Contino, aspetti contraddittori dell’esistenza, alternativi alla linearità della ideologia idealistica e cattolico-classicistica, ma piacevoli, appaganti.

 

 

 

 

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