
I cariddoti sono felicissimi: oggi, finalmente, per una serie di concause (tra cui, forsanche il chiasso governativo sul Ponte), i più scoprono lo Stretto: la pesca dello Stretto, il mare dello Stretto, la spiaggia dello Stretto, il vento dello Stretto, il sole dello Stretto, i delfini dello Stretto, le balene dello Stretto, e così via mareggiando.
«Meglio tardi che mai». Non sono pochi, infatti, i pescatori, i contadini, i commercianti, i baristi, i parrucchieri, i medici, i professori, gli scienziati, nati sulle rive dello Stretto, che ricordano ancora, con qualche rammarico, il disinteresse – e il silenzio – che la loro splendida contrada ha patito (spiagge corrose, strade dissestate ecc.) , dalla nascita della repubblica fino a qualche anno fa, da parte degli amministratori locali, dei politici di tutti i partiti, delle autorità civili e religiose, degli intellettuali di tutti i colori.
Gli stessi messinesi, invero, fino a eri, confondevano Faro Cariddi con Ganzirri, magari considerandoli, dall’alto della loro “nobile” posizione di piccolo borghesi inurbati, dei malfamati quartieri di «cocciulari scavafangu».
Ma bisogna pure dire che, fortunatamente, c’è stato qualcuno – vengono subito alla mente i nomi di Peppino Cavarra, Maria Costa, Antonino Sarica, nonché di qualche sindaco illuminato come Franco Provvidenti e Renato Accorinti – che ha sempre apprezzato la formidabile cultura marinaresca fiorita sulle rive dello Stretto, insistendo sulla necessità di preservarla e casomai di incrementarla anche in funzione turistica. Qualcuno ricorda peraltro l’impegno profuso da giovani cariddoti sessantottini, negli anni Sessanta e Settanta, con fogli volanti, assemblee popolari, comizi fervorosi, appelli alla popolazione, critiche costruttive al malgoverno, nel tentativo di spingere gli amministratori messinesi a interessarsi delle spiagge divorate dai marosi, del giusto sostegno ai pescatori, dello sviluppo alberghiero della zona, perfino dell’opportunità di un Marine per accogliere gli Yacht che cominciavano a pullulare nei due mari. Purtroppo, il silenzio – come dicevamo – ha coperto tutto, per troppo tempo.
Ora, fortunatamente, dopo sessant’anni, Faro Cariddi e Ganzirri non sono più la miserabile periferia della città (che si è, di fatto, prolungata fino a Capo Peloro), divenendo parimenti urgente, per tutti, la protezione dello Stretto.
E se abbondano mille inattesi – e spesso improvvisati – cultori dello Scillecariddi, niente male: «Melius abundare quam deficere»
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Tocca, di norma, da tempo, a chi è nato tra Scilla e Cariddi di trasmettere, magari verbalmente, la narrazione della vita dei pescatori d’antan ai concittadini urbanizzati delle due sponde: suscita grande curiosità, in specie, la cattura del pescespada di qualche decennio fa, quando non esistevano ancora le «passerelle», né i motori marini sulle barche, ma c’erano solo le solenni «feluche», ancorate – ognuna nella sua «posta» – nel centro dello Stretto, e i «luntri» neri inseguivano, leggeri e velocissimi, il pescespada, sotto la spinta poderosa di lunghissimi remi manovrati da robustissimi pescatori.
Meno si parla, invero (forse, perché appare meno epica), della pesca effettiva del pescespada che, all’epoca, si faceva anche con una lunghissima rete a maglie larghe, quadrate (dieci centimetri per lato), chiamata «Palamitara», che oggi non esiste più (è stata sostituita dalla «Spatara», una rete con maglie più larghe, in uso soprattutto sulle coste calabresi).
Tale rete veniva accatastata ordinatamente, in grandi volute circolari, nella parte posteriore, a poppa, di una grande barca, chiamata anch’essa «Palamitara», la quale esibiva sulla prora una svettante antenna di legno (chiamata «palamedda»), sormontata da una palla pure di legno.
La rete era tanto lunga da coprire quasi un chilometro di mare dal punto in cui veniva «calata» in acqua: si lasciava pendere verticalmente, con un’appropriata serie di piombi e di sugheri, per una decina di metri sotto il pelo dell’acqua, diventando una vera trappola per il pescespada che transitasse da quelle parti.
La pesca con la «Palamitara» avveniva, però, in primavera o in autunno, dalla tarda serata alla mattina successiva, dacché in estate funzionava egregiamente, e in pieno giorno, la conosciutissima caccia del pescespada col «luntro» e con la «traffinera» che, scagliata, com’è noto, da un valente fiocinatore posto in agguato sulla poppa del «luntro» stesso, si conficcava, dopo un volo di una decina di metri, nelle carni del pesce.
Le grandi barche «Palamitare» si varavano, dunque, nel pomeriggio, facendole scivolare sulle «falanghe» spalmate di grasso: arrivavano a mare con un placido tonfo quasi fossero grosse chiocce dentro uno stagno; i pescatori meno giovani erano già saliti a bordo quando la barca era ancora sulla spiaggia; gli altri saltavano dentro velocemente dalla riva; uno faceva scivolare la sagola nel foro alto dell’albero conficcato sul banco di prora e tirava su, immediatamente, l’antenna su cui era avvolta la grande vela triangolare (latina), che incominciava a sbattere agitata dal vento; un altro afferrava la cima della vela e tirava o allentava secondo la necessità; la vela si gonfiava; la barca faceva un balzo in avanti e prendeva il largo verso Scilla.
Il cariddoto che scrive ricorda personalmente tutto questo, ma, per sicurezza, lo ha sottoposto al vaglio del capitano Peppino Rando, suo cugino, vero esperto, che ha pubblicato anche un libro su questa affascinante materia.
La notte passava, mentre i pescatori calavano (a mare) e tiravano (sulla barca), per tre volte di seguito, la rete. Le tre «cale» prendevano tre nomi diversi: la prima (dalle diciotto alle venti) si chiamava «Spirò», forse da «Vespro»; la seconda (dalle venti alle due) «Pro-Spirò», forse da «Post Spirò»; la terza (dalle due alle cinque) «Abburi» forse da «Albure», termine spagnolo per «Albòre».
Si faceva ritorno allo «scaru», all’alba del giorno dopo: la fatica era presto dimenticata, quando uno o più pescispada, scaricati dalla barca, giacevano lunghi sulla battigia, pronti per essere sventrati e venduti ai commercianti di Messina e/o di mezza Itala: ai figli, per qualche tempo non sarebbe mancato il pane (né i gustosi «mussedda» o «pititti» – cioè le interiora e le strisce di grasso calloso delle pinne – fritti sulla «cipuddata»).