L’Infinito di Leopardi è uno dei vertici della poesia di tutti i tempi e di tutti i luoghi, nonché un testo assai complesso, attraversato da una ricca polisemia. Ne fanno fede i numerosi significati che gli sono stati attribuiti in questi suoi duecento anni di vita: si va dall’interpretazione religiosa, avanzata da ultimo, con grande acutezza, da Giuseppe Savoca,[1] a quella sensistico-materialistica, altrettanto perspicua, di Vanna Gazzola Stacchini, per fermarsi a due opposti.[2]
Ma nelle varie, anche pregevoli, letture dell’Infinito, ci pare difetti (se non manca del tutto) la giusta considerazione dello specialissimo contesto in cui fiorì questo che resta, a tutti gli effetti, il più misterioso idillio della letteratura italiana.
Per tentare quindi di penetrarne il senso profondo, occorre innanzitutto colmare quella lacuna effettiva degli studi, considerando, in primis, che la cosiddetta «conversione filosofica» di Giacomo Leopardi, avviata nel 1818, fu, nel 1819, molto più dettagliata e profonda di quanto non si sia finora creduto.
Si proceda dunque a una prima ricognizione del contesto in cui maturò la composizione dell’opera stessa.
Leopardi scriveva e/o abbozzava, in quel breve lasso di tempo, molte opere e, in particolare, tra il marzo e l’aprile, le due rivoluzionarie «canzoni censurate», nonché il secondo degli Argomenti di idilli (probabilmente nel giugno) e il pensiero di Zibaldone 50-51, risalente «con molta probabilità all’aprile del ’19», secondo Pacella, [3] gli abbozzi degli Inni cristiani, non rigidamente papalini (nell’estate), e nell’estate-autunno dello stesso anno, il clamoroso abbozzo di Telesilla. È pressoché inutile ricordare che, durante questa straordinaria fase creativa, proprio «nel periodo primavera-autunno» di quel fenomenale ’19, Leopardi componeva, secondo Ghidetti,[4] L’infinito, e sempre nel ’19, Alla luna.
Ma non si finirà mai di sottolineare che, mentre poneva mano, con entusiasmo, a queste e ad altre opere, il giovane Leopardi cambiava radicalmente la sua visione del mondo (o che, per converso, la ricca fioritura di tali opere era conseguente a una sua mutata visione del mondo), ch’era stata, fino a qualche mese prima, imperniata sul classicismo antiromantico in letteratura (codificato nella Lettera ai signori compilatori della Biblioteca Italiana del 1816 e nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica del 1818), sul conservatorismo papalino, austriacante e antifrancese in politica (attestato, se non altro, dall’orazione Agl’Italiani del 1815), sul cattolicesimo antilluministico in filosofia (evidente nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi del 1815). Ne derivavano, per lui, steccati alti e insormontabili – dati, in casa, come assoluti – tra la poetica dei classici e quella degli odiati romantici («schifosissima materia» era, per lui, la poesia romantica in un passo del Discorso di un italiano),[5] nonché ostacoli immani, di presunto ordine etico (accompagnati da profondi sensi di colpa), di fronte alla possibilità di vivere fuori dai canoni della rigida morale cattolica (si pensi alla cantica L’appressamento della morte del 1816).
Niente faceva presuppore, in altri termini, che Giacomino – così lo chiamano ancora oggi gli eredi di casa Leopardi – componesse nella primavera del 1819 le due «canzoni censurate».
Vale a stento la pena di ricordare quel passo famoso del Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, in cui si era concentrata la fiera, irriducibile polemica del Recanatese contro la poesia «sentimentale» dei romantici. Egli era, difatti, nell’agosto del 1818, solo pochi mesi prima della composizione delle «canzoni censurate», assolutamente convinto del fatto che la «vera e incorrotta sensibilità» fosse quella degli antichi, nei cui versi «non parlava o non parea che parlasse […] il poeta, ma il cuore del poeta», laddove presso i romantici, la cui sensibilità gli appariva «contaminata e corrotta», «parla instancabilmente il poeta, parla il filosofo, parla il conoscitore profondo e sottile dell’animo umano» (p. 936), per l’appunto.
Ebbene, non erano passati sei mesi da quando il classicistico Discorso di un italiano era stato completato che Giacomo Leopardi pose mano alle due canzoni, che non entrarono nei Canti perché furono sommamente sgradite al cattolico classicista Monaldo: Nella morte di una donna fatta trucidare col suo portato dal corruttore per mano ed arte di un chirurgo (d’ora innanzi Nella morte di una donna) e Per una donna inferma di malattia lunga e mortale. Si tratta delle cosiddette «canzoni censurate», che però dicono molto – certamente più di quanto comunemente si creda – sulla difficile maturazione del poeta
Quel che, in effetti, non pare si sia finora considerato a sufficienza è il carattere scandalosamente anomalo delle canzoni stesse e della prima di esse (Nella morte di una donna) in ispecie, che non solo è l’unica leopardiana ispirata ad un fatto di cronaca nera (un delittuoso caso di aborto), ma contraddice, in maniera clamorosa, a tutte le proposizioni di poetica elaborate, fino a quel momento, da Leopardi, presentando aspetti del tutto innovativi rispetto alla sua precedente produzione poetica.
Certo, Nella morte di una donna è l’unica canzone di Leopardi in cui tracimano moduli stilistici enfatici, da romanzo noir, fortemente larmoyants, tipici del peggiore romanticismo «sentimentale»:
Misera, invan le braccia
Spasimate tendesti, ed ambe invano
Sanguinasti le palme a stringer volte,
Come il dolor le caccia,
Gli smaniosi squarci e l’empia mano.
Or io te non appello,
Carnefice nefando, uso ne’ putri
Corpi affondar l’acciaro:
Odimi a te favello
O scellerato amante. Ecco non serba
La terra il tuo misfatto, e invan l’amaro
Frutto celasti a la diurna luce,
Cui già di sotto all’erba
Ultrice mano al pianto e al sol riduce (pp. 323-324) .
È però del tutto evidente che l’autore implicito di questa canzone sia il poeta romantico contro cui Leopardi aveva scagliato i suoi strali, acuminati, pochi mesi prima, e che Nella morte di una donna sia un perfetto esemplare di poesia «sentimentale», di quel genere di poesia – vale a dire – da lui stesso, contestata in sommo grado, fino a qualche mese prima.
Giacomo è diventato, in altri termini, l’altro da sé, che aveva cercato di annientare: forma estrema, invero, e assoluta di mutabilità (del genio).
E ha composto un’opera del tutto conforme al modello che aveva dimostrato, pochi mesi prima, di aborrire. Egli non poteva, peraltro, non essere pienamente consapevole della netta diversione, se nel titolo stesso della sua canzone sfoggiava un termine («trucidare»), del quale si era servito, nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica,[6] per definire, in sintesi, tutto ciò che deprecava della poesia romantica:
Ora non metterò a confronto la delicatezza la tenerezza la soavità del sentimentale antico e nostro, colla ferocia colla barbarie colla bestialità di quello dei romantici propri. Certamente la morte di una donna amata è un soggetto patetico in guisa ch’io stimo che se un poeta, colto da questa sciagura, e cantandola, non fa piangere, gli convenga disperare di poter mai commuovere i cuori. Ma perché l’amore deve essere incestuoso? perché la donna trucidata? perché l’amante una cima di scellerato, e per ogni parte mostruosissimo? Troppe parole si potrebbero spendere intorno a questo argomento, stante che l’orridezza è l’uno dei caratteri più cospicui del sentimentale romantico […] (pp. 938-939).
La coincidenza dei termini e dei concetti – ma anche e soprattutto la polarità dell’atteggiamento mentale -, nel Discorso e nella canzone censurata, è davvero impressionante: «perché la donna deve essere trucidata?» si chiedeva, ma dopo sei mesi intitolava un suo componimento a una donna «fatta trucidare [il corsivo è mio] col suo portato dal corruttore per mano ed arte di un chirurgo»! Vale, a stento, la pena di segnalare come anche l’odiato stilema dello «scellerato amante», già ricusato nel Discorso («perché l’amante una cima di scellerato, e per ogni parte mostruosissimo?») si sia risolutamente insediato nella strofa sopra riportata.
Componendo, peraltro, la canzone suddetta egli si misurava con una tematica – l’amore non santificato dal matrimonio e l’aborto – del tutto estranea all’asfittica etica papalino-monaldesca in cui viveva.
Ma «tutto si tiene», anche nella vita dei poeti. Difatti, il distacco dalla morale cattolica più retriva, all’epoca dominante nel contesto papalino-recanatese, è palpabile anche nella Telesilla, dove quel giovane dottissimo per cui era stato immaginata dai genitori una (casta!) carriera ecclesiastica, giunge a concepire l’idea, molto vicina all’eresia vera e propria, del «peccar quasi innocente». Vediamo.
La Telesilla, che sviluppa un episodio del Giron Cortese di Luigi Alamanni, riprende, invero, esaltandolo, pur nella precarietà della testura assolutamente provvisoria, il tema del peccato, qui avvertito come senso di colpa conseguente al congiungimento carnale di due amanti adulteri: Telesilla, moglie di Danaino, e Girone, il migliore amico di Danaino. Secondo norma (psicanalitica), il desiderio incentiva il senso di colpa (con il conseguente bisogno di espiazione) e il senso di colpa, a sua volta, ingigantisce il desiderio, in un processo senza fine in cui i due poli del piacere e del dovere si divaricano, incrementandosi a vicenda: il narratore implicito, evidentemente non ignaro del processo, è del pari scisso fra il bisogno di punire, da intellettuale cattolico, i reprobi lussuriosi e la necessità di dare congrua espressione, da poeta romantico, alla malia travolgente dei sensi e alla sua invincibile, umana necessità.
L’abbozzo si compone di una Parte prima già versificata e di una Parte seconda per lo più ancora in prosa. Vi si narra di Telesilla e Girone che, nel ritornare a cavallo a Maloalto, seguiti da Danaino, marito di Telesilla ed amico di Girone, nonché signore di quel castello, càpitano in una radura solitaria, mentre scende la sera. Dopo essersi dichiarati reciproco amore e dopo mille ripensamenti e rimorsi, si abbandonano alla passione. L’indomani mattina vengono raggiunti da Danaino, il quale insospettito uccide la moglie e viene ucciso da Girone.
La spirale di peccato e immediato pentimento si chiude definitivamente nella Parte seconda, placandosi – si direbbe – in un’inattesa, pacificata soluzione: «Questo sì ch’è fieriss. travaglio. Oh se mai fatto io non l’avessi! oh come or sarei fortunato! Adunque io punto Non m’inganno? io peccai! Giron, peccasti? Mi pare un sogno. Ahi, ahi, chi l’avria detto? Ch’io dovessi peccar quasi innocente Non fossi stato infin da quando io nacqui? Più ch’io ci penso parmi esser un altro. Oh virtù mia come sei gita. Certo se visto non l’avessi, io mai Creduta non l’avrei così da poco».[7]
L’impressione marcata che se ne ricava è che il poeta abbia trovato, proprio nell’atto di abbozzare la Telesilla (opera segnata da una persistente morbosità adolescenziale per le cose del sesso), l’inedita e quasi contraddittoria ipotesi del «peccar quasi innocente», come possibile alternativa all’autocastrazione imposta dal perentorio Superego della morale tridentina: vi si accompagna, per contrappeso, la scoperta di un io debole («parmi esser un altro»), del tutto opposto a quello indomito e pugnace della Cantica e della canzone All’Italia.[8]
Ove si consideri poi che la letteratura non è mai per Leopardi puro gioco formale o trastullo grazioso della mente bensì sempre traduzione-trascrizione, iuxta propria principia, di sue esperienze vitali, non si potrà non convenire sul fatto che, in quello straordinario 1819, il poeta dovette scoprire, per chissà quali vie, il lato oscuro, peccaminoso – e tuttavia fascinoso, irresistibile – del sesso (dopo l’idillio del Primo amore): l’amore, il desiderio e l’adulterio, che porta all’aborto e alla morte in Nella morte di una donna; l’amore, il desiderio, l’adulterio e l’uccisione degli amanti in Telesilla. L’insistenza sul tema, in componimenti di vario genere redatti o appena abbozzati nello stesso periodo, denuncia l’interesse del ventunenne poeta per tale incandescente materia e forsanche la sua esperienza (o quantomeno la tentazione) dell’amore irresistibile, ma sconveniente, e del relativo rimorso. La sessuofobia sottesa nell’abbozzo coevo di A una fanciulla[9] e il «peccar quasi innocente» di Telesilla sono, in tale ottica, i due antitetici, ma non contraddittori, esiti psicologici di tale scoperta.
E si noti con quanto turbamento lo stesso Leopardi rievoca, nei Ricordi d’infanzia e di adolescenza (redatti nel marzo-maggio del 1819), il piacere, provato in sogno di un bacio (p. 364):
sogno di quella notte e mio vero paradiso in parlar con lei ed esserne interrogato e ascoltato con viso ridente e poi domandarle io la mano a baciare […] e io baciarla senza ardire di toccarla con tale diletto ch’io allora solo in sogno per la prima volta provai che cosa sia questa sorta di consolazioni con tal verità che svegliatomi subito e riscosso pienamente vidi che il piacere era stato appunto qual sarebbe reale e vivo e restati attonito e conobbi come sia vero che tutta l’anima si possa trasfondere in un bacio […].
Non è, peraltro, insignificante il fatto che, in un pensiero coevo (Zib., 51), Giacomo Leopardi si ponga, per la prima volta nello Zibaldone, il problema del peccato e della innocenza, asserendo: «Intendo per innocente non uno incapace di peccare, ma di peccare senza rimorso». Quanto l’argomento gli stesse a cuore è testimoniato, peraltro, da un pensiero del 14 ottobre 1820 (Zib., 276), in cui, egli stesso, rifacendosi al precedente, aggiunge:
Nello stesso modo io non chiamo malvagio propriamente colui che pecca (molti non peccano per viltà, per ignoranza del male, per imperizia e mancanza d’arte nell’eseguirlo, per impotenza fisica o morale o di circostanza, per torpidezza, per abitudine, per vergogna, per interesse, per politica, per cento tali ragioni), ma colui che pecca o peccherebbe senza rimorso.
Dove pare di capire che il senso del peccato non fosse più, in quel periodo, per il poeta, automatico e pervasivo, come lo era stato negli anni dei Puerili:[10] innocente è chi, dopo aver peccato, prova rimorso; colpevole («malvagio» nel suo lessico) non è necessariamente chi commette il peccato, ma chi non ha rimorso del peccato commesso. E meno sorprende, alla luce di questi pensieri, la notazione quasi contraddittoria di Girone, nella Parte seconda dell’abbozzo di Telesilla: «Ch’io dovessi peccar quasi innocente». Assai labile e incerto, ad ogni modo, il limite fra peccato e innocenza, di fronte all’amore, in questi testi coevi dell’Infinito.
Ma val la pena di ritornare a Per un’avvertenza alla Telesilla, e a quel paragrafo, in ispecie, in cui il Recanatese trova il modo di fare dichiarazioni assai illuminati sulla sua, invero mediana, posizione letteraria e ideologica fra Classicismo e Romanticismo.
Forza e verità moderna della passione, unita per la prima volta alla semplicità e agli altri pregi antichi.
Ma di queste cose discorrerò di proposito altrove e mostrerò che non ignoro o disprezzo né l’arte né la natura, e che forse non merito di essere né scomunicato da’ seguaci veri de’ classici, né deriso da’ filosofi e indagatori delle alte sorgenti del bello.
Perché poi se stimano che la controversia fra i romant. ec. sia stata se il poeta debba meditare e inventare ec. e se la novità ci voglia in poesia ec. sappiano che questa controversia non è stata mai al mondo fra uomini d’intelletto, non solamente dopo nati i romantici, ma in nessun tempo (349).
Verrebbe fatto di chiosare che notazioni tanto decise valgono più dei molti libri che sono stati scritti sull’argomento: vi si legge il proponimento del poeta di ritornare sulla «polemica» (il Discorso d’un italiano sulla poesia romantica, completato nell’agosto del ’18, non era stato ancora pubblicato, e non lo sarebbe mai stato, vivente il poeta), per esplicitare, dopo le «canzoni censurate», gli abbozzi, gli argomenti e l’Infinito, la sua scelta di equidistanza (o, al limite, di estraneità) da ambedue gli schieramenti, in perfetta sintonia peraltro con la nota formula neoclassica («Sur des pensers nouveaux, faisons des verses antiques») di André Chènier, il cui nome non compare tuttavia nello Zibaldone: non è forse superfluo sottolineare, a tal riguardo, come una coppia antitetica, pressoché identica, di aggettivi sia presente tanto nel testo francese (nouveaux–antiques) quanto nel testo leopardiano (moderna–antichi).
Ma il brano trasmette altre due informazioni importanti, su cui non si può sorvolare: a) che Leopardi era consapevole, nel 1819, di essere o di poter essere «scomunicato» da un partito (i classicisti) e «deriso» dall’altro (i romantici), senza meritarlo; b) che la famosa «controversia» non verteva, a suo giudizio, sulla componente razionale, filosofica («meditare») dell’opera d’arte, né sulla imitazione da seguire o meno («novità») «in poesia», questioni, per lui, parrebbe, scontate: la sua posizione in merito era, ad ogni modo, diversa sia da quella dei classicisti pedanti sia da quella dei romantici estremisti: al di fuori o al di sopra degli steccati.
In realtà, l’avvertenza attesta una fase di superamento da parte di Leopardi, anche sul piano teorico, delle posizioni certamente unilaterali e marcatamente antiromantiche del Discorso, costituendo un tassello assai significativo della sua poetica in fieri: si consideri che i romantici, severamente rampognati nel Discorso, vengono qui gratificati come «indagatori delle alte sorgenti del bello» e che la denominazione di «filosofi» non conserva alcunché dell’accezione riduttiva, se non spregiativa, colà evidenziata.
Si registra, insomma, di fronte all’abbozzo di Telesilla, la stessa situazione verificatasi in occasione delle due «canzoni censurate»: mentre elabora testi romantici, incentrati sul binomio amore-morte, Leopardi si lascia alle spalle la poetica del Discorso, avventurandosi in territori sconosciuti e prendendo coscienza, non senza autocompiacimento, di avere scavalcato i limiti imposti, cioè della sua diversità: in questo caso, della sua estraneità a ciascuno dei due gruppi che si scontravano aspramente, in quegli anni, sul Bello e sul Vero. In più, vi si evidenzia la scoperta del «peccar quasi innocente» e quindi della labilità dei confini fra colpa e innocenza nell’etica amorosa.
Va, peraltro, sottolineato che la stessa presa di distanze dal retrivo cattolicesimo papalino dell’epoca pare sottesa agli abbozzi degli Inni cristiani, che «risalgono all’estate del 1819», secondo Ghidetti,[11] nei pressi, quindi, dell’Infinito.
Posteriori, comunque, ai primi quattro Inni sacri del Manzoni e anteriori alla Pentecoste), essi lasciano intravedere, nelle pur esili trame, due nitidi vettori tematici, con le corrispettive nuances stilistiche: quello della religiosità popolare, tuttavia interna all’ortodossia cattolica, che non avrebbe avuto alcun esito nella vita e nell’opera del poeta, e quello (ben altrimenti fertile nei terreni poetici leopardiani) della miseria, della fragilità, della debolezza umana, come stemma dei figli d’Adamo, cui il Salvatore guarda tuttavia con grande comprensione[12].
Si prefigurano, negli appunti, difatti, rituali «invocazioni a Maria per la povera Italia» e «opinioni contadinesche […] intorno a certe feste». Ma è particolarmente degno di attenzione il riferimento esplicito al progettato recupero di «tutto quel poetico che ha la superstizione nella materia dei spiriti e dei geni» (p. 337): quanto basta, in effetti, per inferire lecitamente che il poeta, lungi dal rigorismo ortodosso dei Puerili e del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, abbia finito col recepire, sul piano concreto della prassi poetica, insieme con gli eccessi «sentimentali» delle due canzoni «censurate», anche i postulati romantici sulla religione e sul meraviglioso della religione popolare, nella fattispecie.
Nell’abbozzo dell’Inno al Redentore e nel Supplemento al progetto degl’inni Cristiani si esplicita, invece, la visione non trionfalistica, bensì solidale, partecipe della religione cattolica: «Pietà di tanti affanni, pietà di questa povera creatura tua, pietà dell’uomo infelicissimo, di quello che hai redento, pietà del gener tuo, poiché hai voluto aver comune la stirpe con noi, esser uomo anche tu» (ibid.).
Emblematico appare anche, in tale ambito, come dicevamo, il tema della infelicità dei figli di Maria: «A Maria. È vero che siamo tutti malvagi, ma non ne godiamo, siamo tanto infelici» (338). Il nodo che lega peccato (la malvagità) e infelicità è, invero, molto stretto in questi nudi lacerti.
Alla luce, dunque, di tali, oggettivi dati testuali risalta chiaramente, da un lato, una radicale svolta nella vita e nell’opera di Leopardi, molto più profonda e concreta di quanto non faccia immaginare la famosa «conversione filosofica» e, dall’altro, la coscienza netta, da parte del poeta, del salutare crollo, in quel 1819, degli ostacoli letterari, filosofici, religiosi – dati come insormontabili nella cultura paterna –, che lo tenevano lontano dalla modernità e dalla realtà, insieme con uno stato di entusiasmo intellettuale e creativo notevolissimo, non disgiunto, peraltro, da un certo scoramento: «divenni filosofo», dichiara in un pensiero dello Zibaldone del 2 luglio 1820, nel quale sembra fare un consuntivo della sua esperienza “romantica”[13].
Detto in altri termini, Giacomo Leopardi, in quel fenomenale 1819, aveva consapevolmente scavalcato – vale la pena di ribadirlo – lo steccato che divideva, per i classicisti, la poesia degli antichi dalla poesia romantica, scrivendo una canzone («censurata» dal padre) ultraromantica e aveva altresì superato il veto che la rigida morale papalino-monaldesca opponeva all’amore fuori dal matrimonio (e alla sua rappresentazione letteraria), confermando tale scelta nella Telesilla. Una situazione nella quale la realtà, l’essere (se si vuole), crollati i dogmi e i filtri dell’assolutismo ideologico, appariva al genio di Recanati, per la prima volta nel mondo moderno (!), nella sua nudità antimetafisica, «infinito», cioè «indefinito» (come chiosa l’autore nello Zibaldone, 1430 – 1431), luogo-tempo libero dai confini, dagli steccati, dai filtri imposti dal potere, ma fuorvianti e decisamente non necessari.
Ebbene, tutto questo va considerato come l’avantesto oggettivo dell’Infinito che, riletto in questa ottica, si rivela, contro il mainstream,[14] un componimento attraversato da una netta, decisa diacronia, marcata dai tempi (presente vs passato), nonché dalla presa di distanza da un mondo avvertito come limitato (finito) e dalla scoperta di mondo (modo di essere) libero dai lacci della metafisica, cioè da (presunti) assoluti ideologici, estetici o religiosi: illimitato, dunque, infinito (come indefinito) per l’appunto.
In questa prospettiva, il «colle» e la «siepe», pur conservando tutta la loro pregnanza realistico-sentimentale, si configurano – per evidente, marcata ipersemantizzazione – come metafore: ardite, sublimi metafore, invero, della casa e della cultura monaldesca (papalina, classicista, antilluministica, antiromantica, antifrancese), che fu sempre cara a Giacomo Leopardi prima del 1819, impedendogli, però, letteralmente, «il guardo» «dell’ultimo orizzonte» cioè della realtà esterna. Ma, dopo aver scritto, tra l’altro, le due «canzoni censurate» e l’abbozzo della Telesilla, abbandonando i confini netti, rigidi, nettamente definiti della poetica, dell’etica e dell’assiologia cattolico-classicistica e ritrovandosi in un terreno, per lui vergine, “altro”, privo di limiti e di confini, provò dapprima, «sedendo e mirando», lo smarrimento («[…] ove per poco / il cor non si spaura») dell’«indefinito» (spaziale prima e temporale poi)[15] (e quindi il piacere del naufragio nel vasto mare dell’essere senza limiti, indefinito («il naufragar m’è dolce in questo mare»).
Letto, quindi, alla luce di questo innegabile, ricostruito contesto, l’Infinito torna ad essere, dopo duecento anni, l’entusiastico «canto di liberazione» di un giovane poeta che ha scavalcato «di salto» le strettoie dell’asfittica cultura classicistica e papalina (metaforizzata nel «colle» e dalla «siepe» di Recanati) in cui era vissuto, giungendo, dopo un attimo di smarrimento («ove per poco // il cor non si spaura»), all’appercezione gioiosa dell’essere come «infinito» spazio-temporale, cioè – per dichiarazione del poeta stesso – «indefinito», non limitato, insomma, da steccati ideologici, estetici o religiosi («e il naufragar m’è dolce in questo mare»). E ciò, quasi cent’anni prima di Nietzsche.
N O T E
[1] Giuseppe SAVOCA, L’estasi dell’Infinito, in ID., Leopardi. Profilo e Studi, Leo S. Olschki Editore, Firenze 2009, pp. 23 ss.
[2] Vanna GAZZOLA STACCHINI, Leopardi politico, Laterza, Bari, 1974
[3] Cfr. Giacomo LEOPARDI, Zibaldone di pensieri, Edizione critica e annotata a cura di Giuseppe PACELLA, Garzanti, Milano 1991, I, p. 70 (vi si rimanda nelle citazioni zibaldoniane che seguono).
[4] Cfr. Enrico GHIDETTI, Note ai testi, in G. LEOPARDI, Tutte le opere, con introduzione e note di W. Binni, con la collaborazione di E. Ghidetti, Sansoni Editore, Firenze 1983, p. 1426 (sono di Ghidetti le datazioni di opere e abbozzi leopardiani, indicate in questo paragrafo). Si rimanda a detta edizione nelle citazioni scorporate (di opere leopardiane) che seguono, senza ulteriori indicazioni in nota.
[5] Cfr. G. LEOPARDI, Tutte le opere, cit., p. 937.
[6] Mi sia consentito di rinviare a Giuseppe RANDO, <<Mutabilità>> leopardiana: le canzoni “censurate” del 1819 e la genesi dell’<<Infinito>>, in AA. VV., Monumenta Humanitatis. Studi in onore di Gianvito Resta, II, Messina, Sicania, 2000, pp. 377-395; ID., Nei pressi dell’Infinito, Aracne, Roma 2015; ID, Giacomo Leopardi: il «salto» dell’Infinito, in «Studi sul Settecento e l’Ottocento. Rivista internazionale di italianistica», XIII (2018), pp. 49-69; ID, L’Infinito: dalla «selva» dei limiti (familiari, estetici, religiosi) all’«immensità» illimitata dell’essere, in «Esperienze letterarie», 4, 2019, pp. 9-26; ID., «L’infinito» di Leopardi tra testo e contesto, in «Illuminazioni» (ISSN: 2037-609X), n. 63, gennaio-marzo 2023.
[7] Cfr. G. LEOPARDI, Tutte le opere, cit., p. 347. Il punto fermo dopo «innocente» manca nel testo.
[8] Cfr. G. RANDO, Nei pressi …, cit., 67-82-
[9] Cfr. LEOPARDI, Tutte Le opere, I, cit. pp. 335-336; RANDO, Giacomo Leopardi: il «salto» …, cit. p. 61.
[10]Vale a stento la pena di ricordare la testimonianza diretta di Moraldo Leopardi, che nella «lettera memoriale» a Ranieri ricorda come nel 1812 il quattordicenne Giacomo, in preda a scrupoli religiosi, «temeva di camminare per non mettere il piede sopra la croce nella congiunzione dei mattoni».
[11] Cfr. LEOPARDI, Tutte Le opere, I, cit., p. 1444. Più precisamente, Lucio FELICI (a cura di), LEOPARDI, Tutte le poesie e tutte le prose, I, Newton & Compton, Roma 1997, p. 460, afferma: «Gli appunti degli Inni cristiani, gli abbozzi e il Discorso intorno agli inni e alla poesia cristiana, sono databili fra l’estate e l’autunno del 1819».
[12] Sugli Inni cristiani si va stratificando una ricca letteratura critica: si rinvia, fra gli altri, a G. GETTO, Gli inni cristiani, in Saggi leopardiani, Firenze, Vallecchi, 1966, pp. 52-57; C. DOMINICI, Riflessioni sull’abbozzo multiplo degli «Inni cristiani», in AA. V., Le città di Giacomo Leopardi, Atti del VII Convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati 16-19 novembre 1987), Firenze, Olschki, 1991, pp. 237-243; Gli «Inni cristiani» di Giacomo Leopardi, Abano Terme, Francisci, 1991.
[13] Cfr. LEOPARDI, Zibaldone di pensieri, cit. p. 147 [144]
[14] Si veda L: BLASUCCI, Leopardi e i segnali dell’infinito, Il Mulino, Bologna 1985,pp 97- 121.L’insegne leopardista, cui si deve una delle più rigorose indagini sull’Infinito, decontestualizza di fatto la composizione dell’Infinito, considerando di tipo «iterativo» e non «singolativo» (Genette) la narrazione del processo interiore presente nell’idillio, asserendo quindi che «tutti i verbi al presente della lirica […] saranno da intendersi come presenti iterativi: ‘sono solito fingermi nel pensiero’, ‘sono solito andare comparando ecc.» e attenuando la «portata avversativa» del «Ma» del verso 4, nonché il senso pregnante dell’avverbio iniziale («Sempre») e dell’iniziale, unico verbo al passato remoto («fu»). Si tratterrebbe, in altri termini, di una sorta di racconto atemporale (scritto al tempo presente, con un solo, innocuo ricorso al passato remoto, ma praticamente senza un prima e un dopo), e irenico, quasi paradisiaco, lineare (senza alcuna avversione-diversione), con un solo protagonista (l’io poetante) e senza antagonista alcuno. Leopardi, insomma, sarebbe stato solito fingersi «nel pensiero» («interminati / spazi», «sovrumani / silenzi, e profondissima quiete») e andare «comparando» «quello / infinito silenzio a questa voce», sempre e ripetutamente, a prescindere da ogni particolare, singolo evento e momento della sua vita, dacché, alla fine, «ciò che si narra nel testo è la rivelazione dell’infinito, sia pure nella finzione del pensiero». Quanto dire, un’avventura spirituale fuori da ogni condizionamento esterno: mentale per l’appunto.
[15] Nei modi che sono stati egregiamente detti da V. GAZZOLA STACCHINI, Leopardi politico, cit.