PUBBLICO SOLO ORA; PER IMPEDIMENTI ACCIDENTALI, QUESTO ARTICOLETTO USCITO SU FB QUALCHE GIORNO FA.

Consideravo l’altrieri, tra me e me, che, nell’ultimo decennio, il vento del cambiamento ha certamente investito, in Italia, la politica, l’economia, il sindacato e persino la religione cattolica, ma non l’Università: il governo zoppo dei giallo-verdi, la svolta “solidaristica” della Confindustria, la riproposizione dell’autonomia sindacale, la rivoluzione effettiva di Papa Francesco, da un lato, e la granitica stabilità (!) dell’Università, dall’altro, lo attestano a chiare lettere.

Se ne deduce – mi dicevo – che siamo in presenza dell’ennesimo paradosso italiano: una struttura – l’Università – che dovrebbe essere in prima fila sul terreno della ricerca, della sperimentazione, della innovazione non si smuove dalla sua tradizionale torre d’avorio, laddove la religione (cattolica), che non è mai stata all’avanguardia nella sua lunga storia, diventa l’antesignana del rinnovamento spirituale, sociale e politico: il che, peraltro, si spiega, – se si spiega – solo con l’intervento dello Spirito Santo nella Chiesa.

Un discorso a parte andrebbe fatto sulle novità della Confindustria, del sindacato e della politica (qui, la logica del gambero pare, invero, prevalente), ma sarà per la prossima volta.

Certo, il cambiamento non è di per sé positivo, ma a nessuno sfugge che l’immobilismo dell’Università, nonostante i vari tentativi di riforma, finisca, di fatto, col perpetuare il peggio della sua storia, per quanto attiene alle modalità del reclutamento (sempre insidiato dal familismo e/o servilismo), alla progressione delle carriere, alla gestione verticistica della didattica, allo (stentato) rapporto col territorio, alla eterna precarietà-subalternità della ricerca scientifica.

Non si era ancora spenta, difatti, l’eco di una nuova concorsopoli universitaria, a Torino, che i giornali riportavano, l’altro ieri, la notizia del rinvio a giudizio del rettore di Tor Vergata, Giuseppe Novelli, per tentata concussione e istigazione alla corruzione.

Né si tratta di una degenerazione centro-settentrionale. Ché il meridione, e le Università siciliane in ispecie, occupano, purtroppo, i primi posti del degrado familistico e gli ultimi della qualità della ricerca scientifica, se non si vuole nascondere il sole con un dito. La stasi del pachidermico ateneo messinese, nonostante qualche timido tentativo di rinnovamento, è davanti agli occhi di tutti: nei suoi apparati, non si muove foglia da … secoli.

Il quadro complessivo è, ad ogni modo, in Italia (con poche, salutari eccezioni) desolante, soprattutto per chi, come me, ha creduto – e crede – nella funzione insostituibile dell’Università e non ha mai smesso di lottare, dall’interno, per la trasparenza e la meritocrazia delle carriere accademiche.

Epperò, negli ambienti culturalmente agguerriti della nazione, si va diffondendo la voce secondo cui, in Italia, esistono, di fatto, due Università statali: quella dei professori raccomandati (figli di papà e/o servallievi di maestri presunti) che, nella maggior parte dei casi, non producono alcunché e occupano talora posizioni rilevanti nelle gerarchie accademiche; e quella dei professori autentici, lontani da ermellini, camarille e baronati , che svolgono attività didattica e di ricerca con passione, competenza e risultati eccellenti. «La prima» – dicono – «luccica (per gli allocchi), la seconda vale (e tira la carretta)». Ma è una magra, magrissima consolazione.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

quattro × cinque =