Chissà per quale strana congiunzione astrale, mi è capitato di avere cinque madri (la mia, Angelina, e le sue quattro sorelle “Piccirille”) e due padri: uno naturale e uno supplente, zio effettivo, ambedue amatissimi.
Ora sono doppiamente orfano di padre, perché dopo il padre naturale, Giovannino dei Ravi, ho perso, qualche giorno fa, il mio secondo padre, che mi era anche fratello maggiore, dacché era stato cresciuto come un figlio, amorevolmente, da mia madre, sua sorella, di vent’anni più grande di lui.
Questo mio secondo padre si chiamava Nicola Piccirillo ed era l’uomo più buono e generoso del mondo: negli anni della mia prima adolescenza, quando mio padre lavorava come marinaio sulle navi della “Società Italia” e mancava mesi e mesi da casa, lo zio Nicola è stato il mio punto di riferimento stabile e il mio primo, affettuoso mentore: mi faceva sentire importante (a quell’età se ne ha bisogno) e propiziava di fatto il mio ingresso, senza troppi traumi, nel mondo degli adulti.
Era un lavoratore instancabile, onesto e competente: pescava più pesci “di prima” lui (lupi, mupi, ricciole, pauri, saraghi) che ogni altro pescatore dello Stretto.
Mi portava a mare, certe mattine d’estate, quando doveva “calare il conzo” al largo di Mortelle: era, per me, una sorta di iniziazione alla virilità e alla connessa lotta per la vita. Associo, ancora, a quel miracoloso evento, i nitidi colori dell’alba riflessi nel cielo bianco-azzurro e nelle acque lente del mare Tirreno mentre il chiarore di sole si levava dai monti della Calabria.
Un fatto, però, della mia vita di ragazzino-pescatore ricordo soprattutto, con affetto: lo zio ed io, ritornati allo “scarro”, facevamo colazione sulla spiaggia con pane, appena uscito dal forno, e gustosa mortadella (ero corso io a comprare questa e quello, con i suoi soldi, alla “putia di donna Pupa”); mi rimane, invero, nelle narici il profumo, e nella bocca il sapore, di quel panino faroto, tra cassette di pesci, ceste colme di lenze ed esca qua e là sminuzzata sulla sabbia.
Lo zio Nicola seguì sempre con discrezione la mia carriera di studente liceale, di studente universitario, di professore. Io contraccambiavo il suo affetto anche aiutando i suoi figli a scuola quando ne avevano bisogno.
E d’altra parte, una volta, di fronte a una spesa imprevista, non mi sono peritato di chiedere a lui di prestarmi i soldi che non avevo in tasca.
Partecipò, poi, fiero come un padre, alle mie nozze in qualità di testimone dello sposo. Eppure, una decina di anni dopo – erano grandicelle le mie figlie – il nostro mondo di nobili affetti andò in frantumi e non ci parlammo più.
Ci fu di mezzo una storia di terreni che aveva angustiato, per più di trent’anni, mia madre Angelina, ch’era solida come una quercia, rubandole, forse, qualche anno di vita, ma il diavolo ci mise certamente la coda. Io ho vissuto – e vivo – quello sciagurato evento come la più grande sconfitta della mia vita: mi ha tuttavia insegnato che siamo troppo fragili di fronte al caso – o al destino o alla malevolenza altrui o alle nostre debolezze– e che la presunzione di certi rodomonti, convinti di essere padroni della loro vita, è spazzatura.
Ora, lo zio Nicola «è nel mondo della verità», come diceva Angelina, sua sorella-madre, e sa che l’ho sempre stimato e amato come un padre buono e come un fratello protettivo.