È già tempo di consuntivi. Faccio il mio in pubblico, alla luce del sole, come i marinai, e lo faccio in due tempi: prima il piacere, poi il dovere.
- Quest’anno mi ha elargito splendide conferme sul piano della salute (toccando ferro), nonché sul piano sentimentale-familiare, e una straordinaria gratificazione sul piano professionale. Delle prime dirò qualche altra volta in altro luogo; accennerò subito, invece, e con viva soddisfazione, alla seconda, costituita dal fatto eccezionale che un mio piccolo saggio critico sulla poesia di Corrado Calabrò – il grande poeta reggino, ex magistrato insigne della Repubblica, cui manca solo il Nobel per vedere riconosciuta all over the world la sua arte – è stato tradotto in inglese e in svedese proiettando il cognome mio (e di mio padre) in Europa e nel mondo, ben oltre i confini nazionali. Si è che Corrado, cui mi legano fortissimi sentimenti di stima e amicizia (la cui reciprocità è, al pari dell’amore, il massimo dei doni che la condizione umana concede agli uomini), ha tanto apprezzato quel mio saggetto da impiegarlo, rispettivamente, come prefazione e come postfazione all’edizione in lingua inglese e in lingua svedese delle sue splendide poesie: Poems by Corrado Calabrò (Pretoria 2018) e Corrado Calabrò, Glasets hemlighet (Goteborg 2018). Quanto dire che il mio cognome (e quello di mio padre, marinaio dello Stretto), già unito a quello di Parini, di Alfieri, di Leopardi, di Verga, di Pirandello, di Pascoli, di Quasimodo, della Spaziani, per non slargarmi troppo, andrà ora unito, in saecula saeculorum, a quello di Calabrò. Di questo fatto, che onora non solo me ma l’intera Università di Messina, non si compiaceranno, certamente, due miei ex colleghi, non eccellenti sul piano scientifico, ma carchi di (falsa) gloria e di onori (posticci), secondo un costume diffuso in certe università periferiche. Così va il mondo. Ma spero non muoiano letteralmente d’invidia quando sapranno che sabato prossimo presenterò, con altri, a Roma, l’ultimo libro di poesie di Corrado Calabro, Quinta dimensione (Milano, Mondadori 2018): nel saggio di poetica che lo sugella e nella iniziale Nota dell’autore, Corrado Calabrò cita, a più riprese, quel mio piccolo saggio che, al di là dei suoi limiti, ha costituito il «filo di collegamento» fra «trasmittente» e «ricevente». Alleluja.
- A fine anno, perdura dunque la mia indignazione contro i due ex colleghi che, approfittando di un loro miserabile potere in ambito para-accademico e strumentalizzando l’Università ai loro fini, hanno mafiosamente risposto alla mia battaglia di idee, a fin di bene, con un proditorio, teppistico assalto alla mia dignità umana e professionale, negandomi, di fronte ad allibiti professionisti messinesi, un premio cittadino a numero aperto, che hanno concesso ai loro accoliti non eccellenti: restano, ad avviso del mio avvocato, denunciabili per diffamazione e interesse privato in atti di ufficio. Perciò, nella mia qualità di intellettuale democratico stimato in città e in provincia per il bene oggettivamente profuso e con l’autorità che mi viene dall’essere riconosciuto, in Italia e all’estero, quantomeno come «lo studioso siciliano» che ha rivoluzionato la critica alfieriana (Bárberi Squarotti) dimostrando con saggi «innovativi»« (Di Benedetto, Petronio, Spongano, Anglani, De Luca) che l’Astigiano è il primo costituzionalista italiano e non già il libertario (Croce), l’anarchico (Calosso), il reazionario (Sapegno) di cui si è favoleggiato per più di cento anni, metto, ancora alla berlina, con vero piacere, il becero, volgare, servile più che accademico comportamento dei suddetti. E ciò, per amore della verità, per demistificare falsi meriti e per il bene dell’Università che amo e a cui ho dedicato gli anni migliori della mia vita. Se si vuole che l’Università cambi in meglio, bisogna avere il coraggio di liberarsi degli errori pregressi e tuttora operativi sotto forme dissimulate. Ripubblico oggi, dunque, parte della nota indignata che ho pubblicato l’anno scorso e che ripubblicherò ogni anno, in questa data, fino a quando campo. Prosit.
Ecco la nota ripubblicata.
Devo in primis ricordare che, per natura e per cultura, mi schiero, sempre e da sempre, con estrema convinzione, in difesa del merito e della trasparenza
Mi è quindi capitato, l’anno scorso, di levare un grido di dolore per la sorte di un latinista di vaglia, autore di contributi scientifici di altissimo livello, rimasto fuori dell’Università (in Italia) e costretto a fare il professore in un liceo, nonché di oppormi, contestualmente, con le mie deboli forze (la penna!), nei modi che sono concessi a un professore in provincia, all’arcaica pratica dell’affinità, usata, più volte e abitualmente, nel settore dell’italianistica dell’Università di Messina, per coprire, con supplenze o con “provvidenziali” cambiamenti di settore disciplinare, gli insegnamenti di materie fondamentali (come quello di Letteratura Italiana), rimasti scoperti.
Una denuncia civile, la mia, o, tutt’al più, una battaglia d’idee – realistiche o meno che siano – come tante che si fanno ogni giorno in tutte le parti del mondo civile e democratico, dove si modificano, di norma, sotto l’urgenza della realtà, le prassi o le leggi inadeguate. Chiedevo, in particolare, che fosse bandito un concorso per coprire almeno una delle due cattedre di Letteratura Italiana, rimaste vacanti, dopo il pensionamento mio e del collega Durante. Ma, apriti cielo: due professori universitari messinesi, un latinista e un italianista … tardivo, che godono di un certo potere accademico, si sono sentiti offesi, come primedonne isteriche, e hanno dichiarato una guerra dissimulata al sottoscritto, presentandolo come «persona che dice male [?] dell’Università» e che perciò «sarebbe sgradito all’Università [?]» di fronte ad alcuni, allibiti, seri professionisti della commissione di un premio locale (fondato da un’associazione culturale e cogestito, dall’anno scorso, dall’Università) e affermando che un premio assegnato anche dall’Università non si sarebbe potuto attribuire, comunque, per conflitto d’interessi [?], a un professore universitario. Dei due professori inviperiti, uno – il latinista – stava, defilato, alla regia, sotto lo scudo del Rettore Navarra (inconsapevole, presumo); l’altro – il neo … italianista – pilotava di fatto i “lavori” all’interno della commissione. È inutile dire che della mia candidatura a quel premio (e della sua bocciatura) ho saputo solo nel giugno scorso, quando ho scritto una lettera chiarificatrice al Rettore, che stranamente non mi ha ancora risposto (aveva risposto calorosamente a una mia precedente lettera): l’accludo, in calce, con qualche altra, in un dossier di documenti. Dico: non sarebbe stato meglio affrontare il discorso a viso aperto come io avevo fatto? E chiuderla lì, come fanno tutte le persone perbene che hanno punti di vista diversi, piuttosto che diffamare proditoriamente uno dei non molti professori che onorano davvero l’Università di Messina?
Ma la mia indignatio durò poco: io sono notoriamente un buono. Mi soccorse la moderazione che mio padre, vecchio accademico dei Lincei, mi ha inculcato: «Fimmini senza cori e omini senza facci: arassu». Decisi perciò dii tenermi lontano [arassu] dai due colleghi inveleniti: «Mettiti con quelli migliori di te e rimettici le spese» (sempre mio padre, tradotto verghianamente in italiano). E, scottato, vietai espressamente all’associazione suddetta di fare il mio nome, d’allora in poi, in qualsiasi occasione, senza il mio assenso. Saluti di là, saluti di qua. Era la pax paramafiosa?
Sia come sia – non ci credereste – qualche settimana fa, mi giunse notizia di un rinnovato attacco della solita “ditta” contro di me, nella prima riunione della commissione per l’assegnazione del solito premio. E allora mi sono proprio rotto i cabasisi, col permesso di Camilleri: «Non se ne può più». Perciò, ho cominciato a menare fendenti da orbi, con qualche ripensamento tuttavia: non so infierire. Ma stavolta non mi fermo più.
Dunque, in quella riunione, gli stessi professori universitari che compongono la quasi metà della commissione suddetta (quattro, compreso il “pilota”, vs cinque scelti dall’Associazione) hanno prima messo il veto a Rando, non sapendo che Rando aveva espressamente vietato all’associazione di fare il suo nome (uno dei tre caudatari, evidentemente ossessionato, come il suo “principale”, dalla mia possibile candidatura, ha esordito imponendo: «Non riproponiamo il caso Rando!», con il plauso del “principale”), e poi – sentite, sentite – forti del loro “fascino” accademico (o paramafioso?), hanno imposto agli impauriti commissari dell’associazione tremebonda l’assegnazione del premio addirittura a quattro professori universitari (e dov’è finito il conflitto d’interessi?). Sono, questi ultimi, beninteso, onesti professionisti, ancorché nessuno di loro abbia mai scritto saggi innovativi né conseguito l’eccellenza nella Vqr né contribuito alla crescita culturale, politica e sociale del territorio (che si sappia): intellettuali integrati, certamente, e della stessa pasta dei due loro mentori (similes cum similibus): potenziali, se non effettivi, gregari: ne hanno dovuto prendere quattro per sostituire me (e non bastano).
Ma poi, questi pusillanimi cresciuti nella bambagia, foraggiati lautamente alla greppia accademica – rampollo di nobile prosapia, l’uno, ed epigono d’inclita “scuola” (sulle “virtù” della quale si rilegga quel bellissimo pamphlet che è Messina sul sofà di Adele Fortino), l’altro –, non possono assolutamente capire che io sono ormai fuori dalla portata dei loro insulti e che non ho assolutamente bisogno del loro premio farlocco: ne ricevo infiniti, veri e sinceri, di pura stima, dalle migliaia di allievi a cui ho trasmesso saperi e valori tra Sicilia e Calabria (s’insegna quello che si è), nonché dalla cittadinanza che mi onora della sua considerazione diuturna, e dagli amici con cui collaboro da sempre nel campo sociale e culturale. E poi, ragazzi, io ho iscritto il cognome di mio padre, pescatore dello Stretto (e linceo a tempo perso), nel grande libro della critica letteraria italiana: What else?
Certo, senza volerlo, devo avere toccato più di un nervo scoperto, se questi grigi rodomonti si sentono ancora offesi e muoiono di bile mentre io mi godo la mia terza giovinezza (toccando ferro). Costoro, lasciatemelo dire, sono tipici prodotti di un’arcaica, arretrata, fascistoide mentalità accademica: non distinguono tra critica (costruttiva) e maldicenza e non si rendono conto che non si possono fare vendette personali (vendetta.1 e vedetta.2) sotto il nobile stemma dell’Università. Li dovreste vedere nelle pubbliche assemblee: sorrisetti (di maniera), mossettine, supercazzole e, di fronte alla minima opposizione, un’improvvisa, stridula, nevrotica levata di voce, come di chi si ritenga oggetto di lesa maestà [de che?].