Tutto cambia. Πάντα  ρέι. E il mondo di oggi – incerto come il vento dello Stretto in un giorno d’autunno – non è più il mondo di ieri. Che non era tutto bello, né tampoco ideale, ma era un mondo dai contorni relativamente netti, comunque definibili.

Ci basti gettare uno sguardo panoramico – a mo’ di bigino – sulla politica, in Italia, dopo il crollo del regime nazifascista e la conseguente lotta di liberazione: a nessuno sfuggirà che, dalle prime elezioni politiche del 1948 e fino al 1994, nel Belpaese erano nettamente individuabili una Destra (PLI, PRI, MSI-AN), un Centro (DC) e una Sinistra (PCI, PSI, PSDI, PSIUP, “Rifondazione Comunista”), con due partiti maggioritari, DC e PCI, portatori di due diverse e antitetiche visioni del mondo, ma non senza fasi e prospettive di «convergenze parallele» (Moro).

Dal 1948 al 1963, si succedettero, invero, governi di «Centrodestra» (formati dalla DC e dai moderati dell’area socialdemocratica, liberale e repubblicana) che gestirono la prima fase della ricostruzione postbellica. Laddove, nel 1963, la DC di Aldo Moro e Amilcare Fanfani – ma la “mente” era Moro – aprì ai socialisti (Di Nenni e Pertini) e nacque il primo «Centrosinistra», che avrebbe accompagnato la seconda fase del “miracolo economico” italiano fino ai primi anni Ottanta: ne fu suggello ed emblema lo «Statuto dei Lavoratori». Quella del Centrodestra e del Centrosinistra (dal 1948 ai primi anni Ottanta) appare tuttavia, storicamente, l’epoca più feconda e innovativa dell’Italia repubblicana, se è vero che, nel giro di pochi lustri, una nazione povera, contadina, arretrata, soffocata da vent’anni di fascismo, diventò la quinta potenza industriale del mondo e gli italianuzzi, usciti dalla fame nera della dittatura e della guerra, incominciarono ad assaporare i benefici dell’incipiente modernizzazione nonché i vantaggi oggettivi della democrazia. Non era – se mai ci fu sulla terra – il regno di Bengodi e non mancarono ingiustizie macroscopiche nella distribuzione del reddito né perdite catastrofiche di valori (Pasolini parlò, giustamente, sulla scia della Ginestra di Leopardi e della Scuola di Francoforte, di «sviluppo senza progresso»), ma si ebbe un effettivo cambiamento in meglio dei modi di vita degli italiani: anche la letteratura, il cinema, la musica (il pop, il rock), l’arte,  furono attraversati da un esaltante piacere di vivere, di vivere in libertà e di guardare avanti.

Tale «democrazia incompleta» (Moro), seppe resistere al terrorismo rosso e nero che imperversò dalla fine degli anni Sessanta fino ai primi anni Ottanta, seminando morte e distrazione con l’intento di frenare lo sviluppo economico e le conquiste della democrazia (ne fu vittima, tra tanti altri innocenti, lo stesso Aldo Moro), ma non seppe opporsi efficacemente alla corruzione dilagante di cui patirono, a partire dalla metà degli anni Ottanta, soprattutto i principali partiti di governo (DC e PSI): furono i magistrati milanesi di “Mani pulite” (1992-94) a svelarne i misfatti e a segnare l’effettivo crollo di un sistema corrotto. Finiva, contestualmente la «prima repubblica» e nasceva la «seconda repubblica». Già nel 1989, con la caduta del Muro di Berlino e l’unificazione della Germania, cui seguì la dissoluzione dell’URSS ad opera di Gorbaciov e Yeltsin, si era svuotato di senso, nel mondo, il bipolarismo postbellico (cioè la contrapposizione dei paesi della NATO, schierati sotto lo scudo della protezione americana, e dei paesi del Patto di Varsavia, egemonizzati dall’URSS) nonché, in Italia, la politica togliattiana del «consociativismo» (tra DC al potere e PCI all’opposizione intermittente se non opportunistica): si inaugurava la cosiddetta fase «antiideologica» della politica contemporanea.

Nel 1994, riempì il vuoto di potere Berlusconi, che fondò dal nulla, sull’onda del «crollo delle ideologie» e dell’anticomunismo in ispecie, con l’appoggio determinante del suo sodale e amico Marcello Dell’Utri (poi finito in carcere per associazione mafiosa) il movimento-partito di “Forza Italia”, promettendo una «rivoluzione liberale» che non ebbe mai luogo nel quasi ventennio (1994-20111) del suo dominio. Nella realtà dei fatti, Berlusconi occupò gli spazi già tenuti dalla peggiore DC e dal peggiore PSI, sdoganando per giunta i neofascisti di Alleanza Nazionale e consegnando infine agl’italiani una nazione mortificata dalle “leggi ad personam e schiacciata da un accresciuto debito pubblico, nonché afflitta da una smisurata «forbice sociale» (ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri) e dalla mancanza di lavoro per i giovani. Gli si rimproverò, giustamente, l’assoluta cecità di fronte alla crisi bancaria del 1998 che, partita dagli Usa, sconvolse l’economia mondiale.

Si modificava, comunque, il quadro tradizionale della politica italiana: alla nuova destra berlusconiana (in cui confluirono, oltre a un numero considerevole di «qualunquisti», molti socialisti craxiani, molti liberali, molti repubblicani, molti socialdemocratici e i neofascisti riciclati) si oppose una nuova sinistra che assorbì progressivamente le “correnti” di sinistra della vecchia DC (soprattutto i seguaci di Moro e di Donat Cattin) e la parte riformista o «migliorativa», perlopiù berlingueriana del vecchio PCI, denominandosi infine PD (Partito Democratico), di cui fu primo segretario nazionale Walter Veltroni. Restava all’estrema sinistra “Rifondazione comunista”, nata nel 1989 ad opera di Armando Cossutta e guidata dal 1994 da Fausto Bertinotti, il «Parolaio Rosso» (secondo la felice definizione di Giampaolo Pansa), esponente tipico della «sinistra sinistrese» o «sinistra alle vongole» o «sinistra cachemire» che, opponendosi a ogni politica di riforme e sognando un’impossibile rivoluzione anticapitalistica, fece alla fine il gioco delle destre conservatrici: Bertinotti causò la caduta del primo e del secondo governo Prodi, aprendo, di fatto, in ambedue i casi, la strada a Berlusconi.

E siamo ai nostri giorni: al tentativo del PD (di Monti, di Letta, di Renzi e di Gentiloni) di far fronte alla crisi rispettando i vincoli europei (2011-2018); al successo clamoroso del Movimento 5 Stelle e della Lega alle elezioni del 4 marzo 2018; alla formazione, nel giugno dello stesso anno, del governo gialloverde, su posizioni sovraniste e antieuropee.

Ma intanto è radicalmente cambiato il mondo e si sono intorbidati i confini dei partiti in campo, tanto che la confusione regna, a tutt’oggi, sovrana. Una domanda, in particolare, s’impone dappertutto, oggi, in Italia: come si spiegano il fallimento improvviso del PD (di Renzi) e i rigurgiti fascisti (e nazisti) della lega e dei pentastellati in un paese che ne sembrava oramai immune? Ma è poi vero che non esiste più alcuna distinzione tra Destra e Sinistra e che, per governare, basta il buonsenso? E ancora: il Movimento delle 5 Stelle, ammantato dai veli del buonsenso, è più di Destra o più di Sinistra? E la stessa Lega, camuffata talora da buonsenso, è più fascista che nazista o più nazista che fascista?

Ma vediamo di rispondere almeno alla prima domanda: come si spiegano il repentino fallimento del PD (di Renzi ) e il contestuale il trionfo dei sovranisti, fasci-nazisti?

Si ricorre, in questo caso, ai test somministrati a campioni statisticamente validi di cittadini, per sostenere quella che pare la tesi dominante a sinistra e a destra: il Pd avrebbe perso le elezioni del 4 marzo 2018, scendendo al 18% (dal 40% raggiunto nelle elezioni europee del 2014), perché Renzi avrebbe abbondonato la originaria (quella del 1948?) «linea di sinistra» del PC-PD, aprendo il campo della protesta e delle rivendicazioni sociali dei diseredati, dei disoccupati e dei lavoratori alle scorrerie dei corsari di Grillo e della Lega.

Tale tesi fatta propria dai diretti interessati e dai loro corifei – qualche giornale di destra e «Il fatto quotidiano», in ispecie, che cerca spazio e vendite a sinistra opponendosi a «La Repubblica» – poggia, invero, su un assioma non dimostrato: che in democrazia la maggioranza ha sempre ragione e che sono sempre politiche e sempre valide le scelte del popolo sovrano. Si dimentica che Hitler è stato eletto in regolari votazioni politiche e che esistono popoli evoluti e popoli meno evoluti sul terreno della democrazia, dove i meno evoluti abboccano più facilmente, da che mondo è mondo, alle esche allettanti dei demagoghi. Si dimentica che gli italiani, per 1861 anni dopo Cristo e per cinque o più secoli avanti Cristo, sono stati servi, servi di fatto (senza stato, senza costituzione), servi fottuti, alla mercé del dominatore di turno. Si dimentica soprattutto che la democrazia è anche un modo di vita regolato da una sua tecnica insostituibile, e che la tecnica – ogni tecnica – si apprende solo e sempre con l’esercizio: tanto meglio acquisita la tecnica quanto più lungo è l’esercizio. Si dimentica, et pour cause, che il ventennio fascista ha di nuovo ripiombato nella servitù un popolo il quale, da appena sessantuno anni, incominciava a far pratica di democrazia. Non si vede difatti – o si fa finta di non vedere – che gli italiani, non tutti ma in maggioranze variabili, mostrano di subire ancora il fascino di un padrone superlativo che li liberi miracolosamente da tutti i mali, mentre essi si guardano l’ombelico (si pensi ai miei siciliani che nel ’94 danno tutti i loro 61 seggi parlamentari a Berlusconi, dopo averli dati per alcuni decenni alla DC: ora votano in massa per Di Maio e Salvini).

Certo, un bambino (immaturo) può credere a un altro bambino o a un adulto che gli prospetti l’arrivo di un gatto con gli stivali che porti ogni giorno montagne di doni per lui e la sua famiglia. Ma a nessuno (adulto) dovrebbe sfuggire che un bambino (immaturo) resta un bambino (immaturo), che il gatto con gli stivali non esiste e che non esistono doni di sorta, garantiti a vita, per nessuno: «Senza dinari non si canta missa e senza sceccu non si va alla Massa», come dicevano i nostri vecchi, esperti del mondo e della vita reale, pur non essendo accademici dei Lincei.

Ma già la condivisione pressoché universale (a destra e a sinistra) della tesi della presunta involuzione politica del Pd, come causa del suo crollo e del trionfo dei pentaleghisti, dovrebbe insospettire. E insospettisce, di fatto, me che non riscontro, nel modesto campione dei cittadini che quotidianamente frequento, la benché minima conferma di quella tesi.

Alla luce, infatti, del criterio empirico-personale di indagine esaltato, nei primi anni Settanta, da un Pasolini in istato di grazia, mi sono fatto un’idea diversa di quell’evento disastroso (pur non possedendo io, ovviamente, l’intuito, la sagacia e lo stato di grazia del modello).

Sulla base della mia, personalissima esperienza (che vale quello che vale) mi pare, infatti, di potere distinguere, tra i miei famigliari, amici e conoscenti (che rispetto, a prescindere dalle scelte politiche di ognuno), accanto a una buona fetta di «qualunquisti», una maggioranza stentata di cinquantenni, sessantenni, settantenni ancora favorevoli al Pd e a Renzi, e un’ampia minoranza filogrillina degli anziani stessi, nonché una quasi totalità di ventenni, trentenni, quarantenni, attratti in massa dai grillini e della Lega.

Altrettanto onestamente devo dire che a me, sulla base di un probante empirismo, appaiono chiaramente psicologiche (psicanalitiche!) più che politiche, le ragioni dei democratici delusi e dei pentaleghisti (giovani o anziani che siano), a fronte delle politicissime ragioni degli irriducibili filodemocratici. Vediamo.

I fautori del Pd (e, in parte, di Renzi) di mia conoscenza sanno, per esperienza di vita, che «il discorso dei miracoli», per dirla con Leopardi, «non riguarda» la politica e sono convinti che non esistono – non sono mai esistite – scorciatoie sulla via del progresso; sono peraltro avvertiti del miglioramento effettivo delle condizioni di vita degli italiani sotto i governi di centrodestra e di centrosinistra, ma sono altresì consapevoli del fatto che, in Italia e in Europa, restano enormi ostacoli da superare, altissimi muri da abbattere, enormi ingiustizie da debellare, restando tuttavia sul terreno della democrazia; sono, insomma, progressisti democratici, moderati che hanno fatto i conti con la storia e con la oramai bolsa – nell’epoca del globalismo trionfante – mitologia rivoluzionaria e anticapitalistica del Veterocomunismo, senza nascondersi i limiti oggettivi del capitalismo incontrollato. Posizione politica, la loro, ad ogni modo, quant’altre mai, senza dubbio veruno.

Laddove la consistente minoranza degli anziani delusi dal PD (di Renzi), che io conosco, è costituita, in parte, da puri, irriducibili comunisti, perlopiù di provenienza sindacale (ex CGL), onestissimi certamente, ma come bloccati, fissati nel culto dell’operaismo postbellico (impensabile oggi), e in parte da pensionati qualunquisti  che assistono impotenti alla fuga dei loro figli e/o nipoti in cerca di lavoro nel Nord o fuori dell’Italia e, con acritica mentalità, vedono in Renzi l’unico responsabile dell’odiosa emigrazione e nel grillino Di Maio o nel fascistoide Salvini i salvatori certi di figli e nipoti. Sentimentali, perciò, i primi e qualunquisti i secondi, ma anti o prepolitici gli uni e gli altri, nella migliore delle ipotesi.

Tra tanto sfacelo, mi capita, dunque, di compiangere i venti – trenta – quarantenni filoleghisti e grillini che conosco (e a cui non smetto di mostrare la mia solidarietà), giustamente esacerbati dalla mancanza di lavoro in un mondo divenuto sempre più asfittico: di loro, una buona metà – la più ardimentosa – emigra e molti restano in famiglia. Ma questi ultimi, in ispecie, mostrano chiaramente di essere condizionati dalla visione del mondo prepolitica e astratta in cui sono cresciuti, grazie al (relativo) benessere loro assicurato dai genitori: pensano cioè che ad ognuno tutto sia dovuto per il solo diritto di nascita (d’altra parte, la scuola piccolo borghese che hanno frequentato non ha loro insegnato nulla sulla critica marxiana dell’ideologia borghese come «falsa coscienza»). In tale ottica, lo stato diventa un surrogato del padre generoso e se non assicura il livello di vita “paterno”, diventa un nemico da abbattere, mentre l’antistato appare, per converso, il modello da seguire fideisticamente. Epperò mangiano e respirano antistato, antipolitica e antieuropa, veleni effettivi, che non possono non produrre guai maggiori se si guarda alla storia. E certamente meglio sarebbe se questi giovani incantati da Grillo-Di Maio e da Salvini-Lega, transfughi potenziali dall’Europa e corteggiatori di Putin e Trump, seguissero quel vecchio, saggio aforisma dei loro nonni: «Méttiti cu chiddi megghiu i tia e péddicci i spisi» (tradotto in italiano per i parigini: «Schierati con quelli migliori di te [sottinteso: non con quelli peggiori di te], magari a rischio di qualche perdita economica»).

Ci sono pure tra i giovani imboniti-intontiti dalla Lega e dai 5Stelle, in proporzione considerevole, diplomati, laureati e professori perfino, che ostentano, ad ogni piè spinto, un profondo, radicale, viscerale odio verso Renzi, «il peggiore», per loro, «dei politici italiani dell’intero Novecento»: lo ucciderebbero, se potessero. E appare invero inspiegabile tale e tanto odio, ove si consideri che «il bullo» (sempre Pansa), che non è De Gasperi e nemmeno Berlinguer, non ha mai abolito la democrazia, non ha mai dichiarato guerra a chicchessia, non ha mai mandato al macello migliaia e migliaia di giovani nella campagna di Russia, non ha mai avuto contatti con la mafia, non è mai stato padrone di televisioni, giornali e industrie varie, non si è mai fatto leggi ad personam.

Si deve, invero, dedurre che tanto smisurato odio dei giovani grillini e leghisti, non rapportabile obiettivamente ad alcuna, vera, documentabile ragione politica (in democrazia si contesta, si lotta, non si odia), si possa spiegare unicamente con l’immaturità di molti, troppi di loro (cresciuti nella bambagia, nella cultura permissivo-edonistico-deresponsabilizzante dell’ultimo Novecento e/o nell’incultura dominante) e, più epidermicamente, come effetto di una divorante invidia generazionale (quella dei «rosiconi»!): cos’ha di più me un trentenne fiorentino che diventa addirittura capo del governo?

La stessa, smisurata invidia antirenziana trapela talora – diciamolo! – dai comportamenti, dai gesti, dalle parole di certi intellettuali anziani, super «rosiconi», che appaiono ossessionati (è la parola giusta) da Renzi (presente, di riffa o di raffa, ossesivamente, nei loro discorsi e nei loro scritti: sentendosi orfani del Veterocomunismo (come ha giustamente rilevato Masimo Recalcati) e in attesa perenne del «sol dell’avvenire», si aspettavano magari di più dalla vita in termini di carriera e di successo sociale epperò si sentono scornati da un “fortunato” come Renzi, che pare fatto apposta per ribadire la loro sconfitta professionale, reale o presunta, in una società che tutto misura col metro del denaro, dell’apparire e non dell’essere.

C’è molto di più, alla fine, di quello che si crede di vedere nelle scelte dei democratici delusi e dei pentaleghisti entusiasti. Ma non ci sono vere ragioni politiche. E senza politica non c’è salvezza, in terra. O, almeno, a me così pare.

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