Non abbiamo visto gatti di sorta in Irlanda – forse, se ne stanno acquattati nelle case come i loro padroni – né topi, né gechi, né mosche, né vespe, ma in cambio abbiamo ammirato, per i vasti campi, mucche e buoi di tutte le misure nonché pecore a mai finire. E soprattutto verde da riempirsi gli occhi e l’anima: verde sterminato d’alberi di mille fogge e di siepi fittissime. E fiumi (il Liffey a Dublino) che scorrono lenti tra sponde disseccate o fangose per la bassa marea. E, sulle acque dei fiumi, papere garrule. E dappertutto gracidanti corvi e grandi gabbiani plananti in volo tra le case, sui fiumi, sui prati, sul mare. Un gabbiano bussava alla finestra di un vecchio che gli apriva e gli offriva, sul palmo della mano, bocconi di pane, licenziandolo infine con un garbato cenno. Un uccellino simile a un passero (ma con un becco un po’ più lungo) beccava briciole a terra tra i passanti, senza paura alcuna d’essere preso o maltrattato: abbiamo pensato a una felice convivenza degli uomini con gli animali, invero, in Irlanda. Solo ragazzi e ragazze – meno male –  per le vie delle città.

Attraversando, sul traghetto, un tratto d’Oceano – tuttavia calmo come il mare dello Stretto in estate -, siamo giunti sulle isole Aran, dove ci ha accolto una casetta bianca costellata da ceste rotonde di fiori multicolori appese sulla facciata, sopra la porta, attorno alle finestre. Ceste simili di fiori abbiamo visto dappertutto, nelle vie delle città (Dublino, Galway) o dei paesi (Killarney) che abbiamo attraversato: la stessa Temple Bar di Dublino, quartiere della movida notturna, dei giovani allegri e vocianti di tutte le grandi città d’Europa, dei musicisti di strada (di Bono degli U2 prima del successo), ne è satura: forse, quei fiori vogliono rompere la probabile monotonia dei grigi dominanti, da queste parti, nella maggior parte dell’anno. Dopo una visita ai muri diroccati e alle tombe austere delle Sette Chiese medievali, siamo ascesi, per un tracciato terroso e pietroso di due chilometri, fino ai ciclopici resti della massiccia cinta muraria che, già duemila anni prima della nascita di Cristo, era stata innalzata non si sa da chi, per proteggere l’arcipelago, e forsanche l’intera Irlanda, da chissà quali nemici esterni: qualcuno, coraggioso, ha voluto provare l’ebbrezza di sporgersi dalla scogliera altissima, incombente sulle acque dell’Oceano.

Nell’isola d Aran, ma anche sul “continente”, abbiamo sempre ammirato lunghissime file di villette – alcune elegantissime – di recente costruzione, con prato curato tutto intorno, con garage aggiunto, con macchine posteggiate nei paraggi, ma mai con persone visibili dall’esterno, né mai con cani o gatti gironzolanti nei dintorni. Qualcuno ha pensato che ci siano più case e macchine che persone nell’Irlanda. Qualche altro ha dedotto che le molte ville di recente costruzione evidenzino l’attuale fase di crescita economica della repubblica. Molti hanno commiserato gli abitatori invernali di quelle villette isolate, immerse nel grigio: o impazziscono, per depressione – si è detto – o scrivono capolavori. Non è strano invero che, in Irlanda, siano nati geni effettivi della letteratura come James Joyce (che ha spazzato via, d’un colpo, le convenzioni ottocentesche della narrativa) e Oscar Wilde, che ha inaugurato il filone estetizzante (Dandy) del Decadentismo.

Nei sei giorni di felice permanenza in Irlanda, non ci siamo fatti abbuffate di bacon e uova fritte la mattina né di fish and chips a mezzogiorno né di stufato di manzo la sera, ma ci siamo adattati, docilmente, al menu, magari sognando di notte un piatto di spaghetti allo scoglio o una bistecca alla fiorentina o braciolettine alla messinese.

Il clima umido-variabile, assai distante dai nostri (estivi) trenta gradi all’ombra, è stato apprezzato da tutti noi, che non abbiamo dovuto sudare nemmeno una delle proverbiali sette camicie, nei vari – anche strenui –  spostamenti.

Il Ring of Kerry ci ha offerto, per esempio, scampoli gratuiti – senza traccia di sudore – della bellezza straordinaria dei luoghi e della lussureggiante vegetazione, tra la quale spiccano le azalee e i rododendri.

Restano impressi nella nostra memoria le spettacolari scogliere di Moher (Cliffs of Moher), nonché il Bunratty Castle, per la rude bellezza dei tratti. E non si dimenticano le chiese della cattolicissima Irlanda: quasi tutte gotiche (medievali), come Saint Patrick Cathedral, segnate dalle forme slanciate, a cuspide, verso l’alto e pregne di atmosfere vespertine, umbratili, dense di misteri. In conformità ai costumi severi dei Nordici, la religione irlandese appare, invero, immune da rotondità barocche o baroccheggianti e da ogni forma di kitch luminescente, tipico di molte chiese nostrane dell’Otto-Novecento (si pensi alla basilica di Sant’Antonio a Messina o alla Chiesa di Tindari): parrebbero più inclini, gli irlandesi, alla introspezione che alla spettacolarizzazione del sacro, più consapevoli della dimensione irrazionale della fede, più disposti ad assecondare ogni personale, magari drammatico, ma ascensionale itinerarium mentis in Deum.

Forti emozioni, anche nel visitare il Trinity College, la prima Università irlandese, fondata da Elisabetta I nel 1591: la sua ricca biblioteca (The Long Room) pullula di testi pregevolissimi, tra cui spicca il famoso Book of Kells contenente un codice latino dei quattro vangeli (gospels), mentre gli studenti, in estate, seguono la lezione del professore seduti sull’erba del prato antistante.

Non mancano gli obelischi e le statue degli eroi a Dublino (sulla testa di Wellinghton posa perennemente un gabbiano). Ma appaiono, all’improvviso, sul marciapiedi, tra la gente che passa, statue di emigranti a misura d’uomo: coperti di stracci e divorati dalla fame. E però qualcuno ha notato che da noi, in Sicilia, nessuno si è mai sognato di fare un monumento all’emigrante, laddove le nostre piazze abbondano solo di statue agli eroi della patria: questione di cultura e di mentalità. «I nordici – si è detto – sono naturalmente (?) democratici, socialdemocratici, immuni comunque dal fascismo patriottardo (e dal comunismo)».

Non abbiamo avuto modo di confrontarci con la gente comune del luogo, anche per difficoltà … linguistiche, ma abbiamo notato che gli irlandesi, come tutti i comuni mortali, dopo due o tre bicchieroni di birra (Guinnes), cominciano a … cantare a squarciagola: in un bar, ci siamo uniti, in coro, a uno di loro, particolarmente rubicondo, che intonava “O sole mio” in inglese (“It’s now or never”).

Ma qualcuno ha notato anche lati meno entusiasmanti della società irlandese (e dove no?): quei patetici musicisti di strada – magari bravissimi – che stanno lì, giornate intere, a suonare le loro melodie, con la magra aspettativa delle elemosine (sognando di diventare famosi e ricchi come Bono), o la bella ragazza – magra, alta, capelli neri, occhi azzurri – chiaramente drogata, su un marciapiedi di Dublino, con un ragazzo accanto che mal la sorreggeva. «Quante vite (e creatività) sprecate. A Dublino come in tutto il ricco mondo occidentale», ha commentato qualcuno, con amarezza.

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