Chi mi conosce sa che sono, per natura prima che per cultura, del tutto estraneo, se non alternativo, all’esibizionismo narcisistico di molti professori ordinari dell’Università.

Sicché mi sono sempre attenuto all’antica massima, cara ai veri signori (ma anche ai rudi pescatori), secondo cui «chi si loda s’imbroda». E, contento dell’essere, non ho, forse, dato il giusto rilievo – nella società dello spettacolo! – all’apparire, come mi faceva notare, qualche mese fa, l’amico Nino Principato esortandomi a comunicare al vasto pubblico della città e dell’isola i risultati dei miei studi, anche attraverso stampa.

La mia signorile-marinaresca discrezione è, invero, tornata utile solo a chi di apparenze vive e ha preferito ignorare i miei successi, ma ha soprattutto privato i miei amici (non addetti ai lavori) d’informazioni che avrebbero sicuramente gradito.

Ora, però, non posso più tacere: sarebbe come nascondermi per viltà. Anche se temo che i miei colleghi “continentali”, inesperti delle “delizie” meridionali, avranno difficoltà a capire la mia svolta. Si sappia, ad ogni modo, che tale mio (purtroppo tardivo) cambiamento di stile è dovuto alla pubblicazione recente, pressoché simultanea, di due monografie alfieriane, scritte da due insigni colleghi (Bartolo Anglani, ordinario di Letteratura Comparata a Bari, e Stefano De Luca, ordinario di Storia delle Dottrine Politiche a Napoli), i quali rendono giustamente onore al mio impegno di studioso – diciamolo – serio, innamorato del proprio lavoro, non protetto né asservito ad alcun maestro vero o presunto, immune dal tarlo dell’ideologia e addirittura innovatore nel suo settore di studi. Ai due illustri studiosi va, dunque, in primis, il mio cordiale, profondo, sentito ringraziamento.

Certo, qualcuno dei miei colleghi ucciderebbe anche il padre (se gli campasse), per avere solo un quarto di tali apprezzamenti. Non si tratta, invero, di un riconoscimento di poco conto, dacché nei due volumi suddetti s’insiste, con dovizia di particolari, sulla funzione «innovativa» dei miei studi e sul fatto che proprio io, Giuseppe Rando, «lo studioso siciliano» (De Luca), ho inaugurato, negli anni Ottanta del secolo scorso, in Italia e nel mondo intero delle Lettere, il discorso sul costituzionalismo alfieriano.

Per dirla in soldoni, è successo che, dopo duecento anni (duecento!) di letture e di interpretazioni fallaci del pensiero politico di Vittorio Alfieri (di volta in volta, definito astrattamente «libertario» – [Croce] – o, peggio, «anarchico» [Calosso] o, peggio ancora, «reazionario» e «sradicato» dal suo tempo [Sapegno]), è stato proprio un professorino dell’Università di Messina, da poco associato, a dimostrare (dimostrare, una volta per tutte, testi e storia alla mano) che Vittorio Alfieri fu il primo intellettuale (scrittore, poeta, tragediografo, commediografo) italiano ad avere codificato, sulla scorta dei costituzionalisti francesi del secondo Settecento (soprattutto Mably, Mounier De Lolme, Livingston, l’ultimo Diderot), e quindi introdotto in Italia il costituzionalismo, in alternativa al fatiscente (negli anni Ottanta del XVIII secolo) dispotismo illuminato, già caro agli illuministi, facendone, peraltro, l’asse portante di gran parte della sua produzione letteraria.

Era – devo dirlo – «una effettiva rivoluzione della critica alfieriana», come amava ripetere Giorgio Bárberi Squarotti. Evento, invero, straordinario non solo per l’Università di Messina ma per l’Università all over the world, e accostabile a pochi altri del Novecento sul terreno degli studi letterari (il superamento della critica crociana sulla Divina Commedia, su Leopardi, su Pirandello, su Pascoli, per esempio, o gli studi filologici di Contini su Dante o di Segre su Ariosto) e sul terreno scientifico (la scoperta del Moplen [il polipropilene isotattico] o la mappatura del genoma umano, per non farla troppo lunga). Talché un mio collega anarchico insiste, da anni, sul fatto che nemmeno uno dei più celebrati campioni delle Università di Messina, Catania e Palermo ha mai conseguito, nel proprio settore disciplinare, gli stessi innovativi risultati di Giuseppe (detto Pippo) Rando.

È facile, pertanto, arguire che ogni altra Università d’Italia e d’Europa avrebbe dato il giusto risalto all’evento e portato sugli scudi uno studioso siffatto, anche per il prestigio che ne sarebbe riverberato sulla città e sull’Università di provenienza, laddove Giuseppe Rando è vissuto e vive (toccando ferro), felice e appagato nella sua cerchia familiare e amicale, tra il plauso degli studenti, di molti colleghi solerti e delle persone colte dello «scill’e cariddi»,  gratificato del lusinghiero consenso di illustri colleghi continentali, sempre impegnato, con successo, in tutte le attività promozionali del territorio, ma sempre «orgogliosamente estraneo» – afferma sardonicamente  quel mio collega anarchico – «ai fasti e ai misfatti degli apparati di potere».

Devo pure dire, per la completezza dell’informazione, che i giudizi di De Luca e di Anglani si aggiungono a quelli, altrettanto positivi, che nel corso del tempo, a partire dai remoti anni Ottanta, erano stati formulati sui miei studi alfieriani da maestri effettivi del calibro di Giuseppe Petronio, di Raffaele Spongano, di Giorgio Bárberi Squarotti, di Arnaldo Di Benedetto e di tanti altri insigni studiosi di cui ho sempre informato gli addetti ai lavori, anche locali, nonché (inutilmente) le varie autorità accademiche messinesi: li ho sinteticamente raccolti in un mio profilo – leggibile da chi lo voglia – recentemente ristampato nel mio blog (www.giusepperando.it).

Per eccesso di scrupolo documentario, pubblico tuttavia, in coda a questo scritto, in fotocopia, alcune pagine del volume di Stefano De Luca (Alfieri politico, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2017) e qualche pagina del volume di Bartolo Anglani (La tragedia impossibile. Alfieri e la profanazione del tragico, Aracne, Roma 2018): faranno sicuramente inorgoglire i miei amici e i molti messinesi onesti che apprezzano chi onora la nostra bella città nonché tutti i professori universitari che credono nella meritocrazia e nella trasparenza; potrebbero però provocare – ma mi auguro vivamente di no –  inopinati decessi, sotto micidiali attacchi di invidia biliosa, di certi colleghi.

Ma qualcuno si chiederà come si spiega un’aporia di tal fatta nel nobile Ateneo messinese. Direi che si spiega in un solo modo: inserendola nel giusto contesto della prassi e della politica universitaria della prima e della seconda repubblica (di cui va fatta finalmente la storia, senza paraocchi) e soprattutto nella prassi “baronale” vigente, negli anni Settanta e seguenti, nei recinti dell’italianistica messinese. Qui – com’è arcinoto – regnava, col consenso consociativista dell’Urbe e dell’Orbe, Gianvito Resta, filologo umanistico transitato a Letteratura Italiana con tipico (comodo) salto di settore disciplinare, tuttavia lontanissimo dai traguardi professionali e scientifici di un Contini o di un Segre, ma grand commis del potere democristiano e gestore effettivo, non occulto – talvolta anche accorto e lungimirante, a quanto dicono i laudatores – dei concorsi a cattedra di Letteratura Italiana, in Italia, dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso alla data del suo inatteso decesso. Uno come tanti, anche garbato nei tratti, ma più di tanti condizionato dal sottomondo baronale di cui era diretta espressione. Laddove Giuseppe Rando, cui non sono mai mancati onestà intellettuale (e non solo intellettuale), schiena dritta, istinto pedagogico, intelligenza del testo e voglia di sapere, non era, per sua libera scelta, allievo di Gianvito Resta (ancorché si fosse laureato in Lettere Classiche nella Facoltà di Lettere e Filosofia di Messina) e insegnava, per giunta, Letteratura Italiana, da associato, nella locale Facoltà di Magistero retta da Antonio Mazzarino, di cui Gianvito Resta pativa (non poco) la primazia sul terreno culturale e su quello filologico in ispecie.

In verità, ho lavorato sempre da solo, a Messina, col supporto di mille maestri “cartacei”. E non ho mai fatto parte di quell’amena “scuola” restiana, della quale si ricordano soprattutto, in città, le dure corvées culinarie (e non solo) degli adepti e le voci insistenti sui libri e sugli articoli scritti da Caio e pubblicati da Sempronio. Sono difatti diventato  professore associato nel 1982, grazie a Petronio che mi ha spinto a presentare la relativa domanda e mi ha segnalato (!) a Resta. D’altra parte Resta, con cui – da persona corretta – ho mantenuto sempre rapporti di civile convivenza, non ha poi recepito (litote) la proposta del povero Paladino, che desiderava candidarmi, insieme con Petronio, al concorso a cattedra del 1992 (mi pare): ero associato da dieci anni; pubblicavo molto sui siciliani maggiori e minori; era appena uscita La norma e l’impero. Studi sulla cultura e sulla poetica leopardiana in una collana torinese diretta da Barberi Squarotti; avevo dimostrato – dimostrato e illustrato, contro il pregiudizio marxista di Sapegno e compagni – la dimensione chiaramente costituzionalistica del pensiero politico alfieriano nonché la matrice giornalistica di Gente in Aspromonte: tutti saggi innovativi che certi presunti maestri e i loro allievi non hanno mai prodotto e non produrranno mai. E siamo nel cuore dell’aporia di cui sopra.

Certo, il “disinteresse” di Resta, dato il “credito politico” dello stesso, diventava inavvertenza di buona parte del milieu accademico più integrato nel sistema, ma non mi inquietava più di tanto, anche perché non sono mai stato affetto, per natura (presumo), dal demone carrieristico: avevo – ho, deo gratias, una bella famiglia, mi ero costruito, con un mutuo, una casa a mare, insegnavo a studenti grati ed entusiasti («la nostra la è più bella professione del mondo», diceva Bárberi Squarotti), avevo – stratoccando ferro – la salute, ero circondato dall’affetto e dalla stima di molti amici e colleghi, locali e “continentali”, godevo di una totale libertà di ricerca, conquistata senza  mai piegare la testa, cioè senza “portare la borsa” ad alcuno: chi era mai ‘sto Resta che chissà come e perché dirigeva l’italianistica in Italia, osannato da tutti, anche dagli oppositori ufficiali del sistema, alias i miei sodali marxisti (tranne il caro Petronio)? Certo, per una serie di fattori (cromosomici, culturali, politici sottesi alla mia formazione e ai miei comportamenti) oggi posso dire, a fronte l’alta, che sono stato l’unico italianista italiano a tenermi distante da Resta («vergin di servo encomio e di codardo oltraggio»). Semmai con la maturità di oggi, posso solo dispiacermi di non avere considerato che, se fossi divenuto professore ordinario qualche anno prima (sia pure sottoponendomi a certe dure corvées), avrei avuto più tempo per contribuire al risanamento politico, culturale, scientifico della mia città.

Resta aveva, invero, bisogno di un allievo accreditato, per giustificare quanto meno la permanenza sulla cattedra di Letteratura Italiana di Messina per più di un trentennio, tanto che qualche anno prima, mi aveva fatto capire, con i suoi modi curiali («Io ho sempre aperto a chi bussa alla mia porta») che dovevo passare nella sua corte (“scuola”) per fare carriera. Non poteva, peraltro, permettersi di “regalare” un ordinario di Letteratura Italiana, a Messina (!), al suo nemico Mazzarino. Ma io, che non so sgomitare (Resta era circondato da un nugolo di allievi che vantavano, in pubblico, i loro “diritti” per i “servizi” resi), stavo bene dove stavo. E poi, da democratico (di sinistra) fin dentro i cromosomi, non mi è mai piaciuto «servire» (né asservire). Ad ogni modo, il “barone” non ha appoggiato (litote) nemmeno la mia candidatura al successivo concorso a cattedra, non peritandosi di di portare in cattedra studiosi siciliani (e non) magari valenti, che non avevano – e non avrebbero mai – rivoluzionato la critica di alcun autore, maggiore o minore,  della letteratura italiana. «Non si muove foglia, se Resta non voglia», si sussurrava, in tutte le Facoltà umanistiche d’Italia, all’epoca del consociativismo. D’altra parte, nemmeno i professori marxisti avevano l’ interesse di valorizzare un Alfieri “costituzionalista” in alternativa all’Alfieri “sradicato” dal suo tempo e “reazionario” che era stato, a lungo, un punto di forza del loro metodo critico. Non si finirà mai, ad ogni modo, di deprecare un sistema orrendo che affidava di fatto a un solo uomo, contro ogni criterio di trasparenza e meritocrazia, la gestione di un settore fondamentale della cultura e della ricerca scientifica. Tre anni dopo, lo stesso Resta issava finalmente su una cattedra di Letteratura Italiana un suo tardivo allievo (già contemporaneista, saltato in extremis sul carro del … padrone del vapore), eliminando – o credendo di eliminare – un neo gigantesco della sua carriera di osannato maestro di italianistica,  e non poneva più ostacoli al mio ordinariato. D’altra parte, Mazzarino – pace all’anima sua – era già morto e sepolto. Ma non si può certamente  cancellare, con un colpo di spugna, un decennio (se non più) di oscuramento imposto sugli studi «innovativi» di un professore  di Letteratura Italiana e il conseguente depauperamento dell’italianistica (e dell’ateneo) messinese in un cruciale periodo di trapasso. Delizie del consociativismo, su cui bisognerebbe tornare. Ma mi piace chiudere in bellezza attingendo, con un pizzico d’orgoglio marinaresco, a una mia recente lettera inviata a un collega tanto integrato in quel sistema da confondere la mia sudata libertà e serenità di giudizio con l’irriverenza:

Io vengo dal mare e non dai salotti (con rispetto parlando), perciò cammino, sempre e da sempre, a fronte alta. Trasmetto da decenni saperi e valori (s’insegna quello che si è) a centinaia e centinaia di studenti entusiasti e grati. Ho commesso e commetto errori come tutti gli esseri umani, ma mi onoro di non aver mai derogato dalla retta via dell’onestà e di avere scritto il cognome di mio padre, onesto lavoratore del mare, nel grande libro della critica letteraria italiana.

 

APPENDICE

 

A) Stefano DE LUCA, Alfieri politico, pp. 182-186

 

  1. TRA IDEOLOGIA E NON

 

Gli anni Ottanta si aprono con un lavoro – i Tre saggi alfieriani di Giuseppe Rando[1] – fortemente innovativo, sotto molteplici punti di vista. Innovativo nel metodo, sia perché i testi alfieriani vengono sottoposti a un’attenta rilettura analitica (che nel caso del Della tirannide valorizza, per la prima volta, l’evoluzione subita dal testo nelle sue diverse redazioni), sia perché vengono ricollocati nello specifico contesto intellettuale e politico nel quale sono maturati. Innovativo, poi, nella scelta dei temi, giacché vengono rilette con attenzione le commedie, ovvero le opere che, lungo tutto il Novecento, con la sola eccezione di Placella[2], erano state oggetto di una prolungata svalutazione. Ma ancor più innovativo negli esiti interpretativi, giacché Rando – contestando apertamente il mainstream novecentesco dell’Alfieri politico indeterminato, astratto, privo di vigore logico, anarchico, anti-politico e/o reazionario – sostiene che il pensiero politico dell’Astigiano si fonda su un insieme di principi ben definiti, esposti (almeno nel Della tirannide) con il vigore logico di un teorema e pienamente iscritti nel filone del costituzionalismo democratico settecentesco.

Questa interpretazione trova la sua esposizione più articolata nel saggio su Della tirannide, di cui Rando offre una rilettura analitica incentrata sul raffronto tra la redazione del 1787 (che costituiva la revisione dell’abbozzo originario del 1777) e il testo a stampa del 1789. Lo studioso siciliano sottolinea come le modifiche apportate da Alfieri dopo il 1787, in genere trascurate dalla critica, siano in realtà profonde e significative, e che costituiscano la migliore testimonianza della maturazione del pensiero politico alfieriano. Anzitutto, Rando prende in considerazione le ampie modifiche apportate, nei primi due capitoli, alla definizione del concetto di tirannide, che riprendono e radicalizzano il principio montesquiviano della distinzione dei poteri. Tuttavia, mentre Montesquieu delinea un assetto costituzionale nel quale l’esecutivo partecipa, tramite il diritto di veto, al processo legislativo, Alfieri disegna, dopo il 1787, un assetto nel quale l’esecutivo non può in alcun modo svolgere funzioni legislative e in cui è piuttosto il legislativo a condizionare l’esecutivo, attraverso il principio della responsabilità di quest’ultimo. Tra le aggiunte compaiono inoltre la definizione della legge come «prodotto della volontà dei più» e la definizione del «giusto governo» come quello in cui non solo vi siano le leggi, ma vi sia «la stabilita impossibilità di non eseguirle.»

Tutto ciò dimostra, secondo Rando, che la polemica antimontesquiviana di Alfieri – il vero principio animatore del Della tirannide – <<si fonda non su astratte ipotesi libertarie», come affermava la linea interpretativa che da Calosso giunge sino a Nicastro, ma su concetti ben definiti[3]. Concetti che erano del resto presenti nel dibattito costituzionale francese di quegli anni, e che caratterizzavano le tesi dei «democratici» come Mably, Condorcet e Livingston (contrapposte alle tesi <<liberali» di De Lolme e Mounier). Se nella versione originaria del suo saggio Rando si limita a sottolineare la contestualità tra le aggiunte alfieriane e il coevo dibattito costituzionalistico francese, nella versione più recente del suo lavoro (2007) giunge a conclusioni molto più assertive: a suo avviso il Della tirannide

 

inerisce perfettamente al costituzionalismo europeo della seconda metà del Settecento, essendone la critica «da sinistra» alle tesi montesquiane sulla monarchie e sulla «distinzione dei poteri» il suo limpido, inconfutabile fondamento epistemologico. Quanto dire che Alfieri non contesta, nella Tirannide, ogni forma di governo, ma il dispotismo illuminato come tirannide moderna travestita da «monarchia»: è il grande Montesquieu, insomma, il suo principale interlocutore e non già il vetusto Machiavelli[4].

 

Venendo ai restanti capitoli del primo libro del Della tirannide, Rando riconosce che «lo schema compositivo ripete perfettamente quello della prima stesura, e tuttavia quanto il discorso del manoscritto era generico e striminzito, tanto più le argomentazioni dell’edizione prima diventano “attuali”, nutrite di cultura, ampie e spesso esaustive»[5] 

Tra queste Rando evidenzia l’ipotesi di una volontaria rinuncia al potere assoluto (nel cap. III), sottolineando come tale ipotesi venisse avanzata anche da Diderot nei confronti di Caterina II (nell’Osservazione sull’istruzione dell’imperatrice di Russia ai deputati per la elaborazione delle leggi)[6]; rileva come l’accenno all’insufficienza del progresso materiale, quando non sia accompagnato dalla crescita morale, sia una chiara eco della polemica antifisiocratica dell’epoca; osserva come nel capitolo sulla nobiltà, uno dei più rimaneggiati, compaia la nozione di un ceto elettivo che svolga le funzioni dei nobili, nozione che occupa la seconda lettera dei Diritti e dei doveri del cittadino di Mably; rileva le riserve di Alfieri sul sistema inglese, che sono analoghe alle riserve dei costituzionalisti <<democratici»; sottolinea le aggiunte in cui Alfieri fa proprie «le più avanzate tendenze della cultura politico-economica del tempo, assegnando al commercio e all’industria una funzione e un valore fondamentali per il man-tenimento della repubblica»[7]. Infine Rando si sofferma sulle aggiunte relative al problema delle eccessive diseguaglianze economiche, affermando che Alfieri dimostra una <<dimestichezza con i problemi dell’economia politica» che era «impensabile nel primo abbozzo»[8].

In conclusione, l’alternativa repubblicana alle tirannidi delineata da Alfieri tra il 1787 e il 1789 risulta <<concretamente fondata su precisi e storicamente circostanziati dati socio-economici»[9], che sono «la richiesta di una rigida distinzione dei poteri, il rifiuto del latifondo, il rifiuto del contratto sociale, la tesi delle leggi come “semplice prodotto della volontà dei più”, la proposta di una più equa distribuzione della ricchezza, la critica “protestante” della chiesa cattolica». Dunque l’alternativa repubblicana non ë più affidata, come avveniva nella prima redazione, ad «astratte idealità»1°, ma a una robusta e articolata teoria.

Nel passaggio dal manoscritto all’edizione a stampa il Della tirannide si è arricchito di contenuti, facendosi più oggettivo, scientifico, leggibile e didascalico, tanto da diventare molto diverso dalla prima passionale e soggettiva redazione.

Alfieri vi si rivela – conclude lo studioso siciliano – come il critico italiano più acuto e coraggioso del dispotismo illuminato, di cui mette in luce i limiti storici e istituzionali, non da posizioni astratte, libertarie, nichilistiche o reazionarie, ma tenendosi per molti versi, sul terreno del costituzionalismo moderno.

 

 

B) Bartolo ANGLANI, La tragedia impossibile, pp.264-265

 

Resisto alla tentazione di citare ancora da questo saggio, modello di un’analisi che si rivolge ai testi senza dimenticare la storia e alla storia senza dimenticare i testi. Ciò che ne ho detto finora dovrebbe bastare per far comprendere che quando si abbandonano gli schematismi e le astrattezze ideologiche si arriva a porre il problema della «politica» alfieriana in una luce del tutto nuova e suggestiva, e la stessa parola «astrattezza» diventa impronunciabile.

In realtà Giuseppe Rando fin dal 1980 aveva affrontato la questione dell’Alfieri  «politico» in termini che mettevano in discussione gran parte delle definizioni e delle analisi venute dopo, quando aveva negato che il poeta appartenesse al mondo dell’«antipolitica» e dell’<<anarchia>>, e aveva sostenuto che invece egli era per un verso «il più politico e il più innovativo degli scrittori del suo tempo» e per un altro «un convinto, radicale sostenitore della “sovranità della 1egge”, il più legalitario, forse, degli scrittori italiani di tutti i tempi». Bastava guardar le date, del resto, per vedere che Alfieri era vissuto nella seconda metà del Settecento e nei primissimi anni dell’Ottocento, «in un’epoca in cui l’Illuminismo aveva già esaurito la sua “carica propulsiva”, rivelandosi incapace di dare risposte soddisfacenti alle nuove esigenze di legalità e di costituzionalismo che emergevano dagli strati più avanzati della società». La “colpa” di Alfieri era dunque quella di essere venuto <<dopo l’Illuminismo», di essere stato «un postilluminista (non un antilluminista tout court)», di non aver attaccato «l’Illuminismo trionfante» del «ventennio progressivo» ma di averne registrato, «dopo la crisi storica», il <<tramonto» (per usare un concetto di Sergio Moravia), «impegnandosi, in una con i costituzionalisti europei e con l’ultimo Diderot, in un’opera di svelamento dei limiti storici della filosofia e della politica dei lumi, per disingannare quanti ancora ne fossero abbacinati, per indicare le vie della legalità, per uscire definitivamente dal dispotismo (il dispotismo illuminato, caro ai philosophes)», insomma «per andare oltre l’Illuminismo» e non certo «per restaurare alcunché del passato», presentandosi come «il primo liberale moderno» (come già aveva intuito Walter Binni)[10]. Sarebbe troppo lungo riassumere e discutere per esteso le tesi dello studioso, espresse con una nitidezza e una discorsività che non scadono mai nel semplicismo. Rinvio a ciò che ne ho detto nel capitolo Alfieri e Rousseau nel volume L’altro Io, e mi limito qui a riportare la «conclusione» relativa alla stesura della Tirannide, opera che «cosi come la leggiamo nella redazione definitiva, lungi dal configurarsi come un’astratta dissertazione su generici temi di tirannide e libertà, è un trattato politico fortemente polemico nei confronti del dispotismo illuminato, scritto per svelare ai contemporanei la logica di potere dei sovrani del tempo»; che, «nel passaggio dal manoscritto alla definitiva edizione a stampa, si è arricchita di contenuti tipici dell’area del “costituzionalismo democratico” francese della seconda metà del Settecento»: un’opera in cui  Alfieri si rivela «come il critico più acuto e coraggioso del dispotismo  illuminato, di cui mette in luce i limiti storici e istituzionali, non da posizioni astratte, libertarie, nichilistiche o reazionarie, ma tenendosi sul terreno storico del costituzionalismo moderno».[11]

 

 

 

C) N O T E

 

 

[1] G. RANDO, Tre saggi alfieriani, Herder, Roma 1980. Una versione aggiornata dei saggi contenuti in questo volume è ora in ID., Alfieri europeo: le «sacrosante» leggi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007, pp. 19-161.

[2] V. PLACELLA, Alfieri comico, Minerva Italica, Bergamo 1973

[3] Nella versione aggiornata di questo saggio, apparsa nel 2007, Rando affermerà anche che la linea interpretativa disposta a riconoscere «impronte più o meno marcate di liberalismo e di moderato laicismo» in Alfieri (e qui il critico si riferisce a Gobetti, Fubini, Binni e Boni) non ha colto la determinatezza di tali concetti e ha finito col negare la presenza di una precisa opzione politica nelle opere di Alfieri.,

[4] Ivi, p. 34.

[5] G. RANDO, Tre saggi alfieriani, cit., pp. 25-26.

[6] ll riferimento a quest’opera sarà centrale anche nella lettura che Rando delinea del Panegirico di Plinio a Traiano. Distaccandosi dalla linea critica prevalente nel Novecento, che vede nel Panegirico un’esercitazione retorica, Rando sostiene che esso sia il travestimento retorico di una concreta tesi politica. Una tesi maturata nella crisi del dispotismo illuminato e rivolta polemicamente contro Montesquieu e i philosophes, che del dispotismo illuminato erano stati sostenitori. Tesi che trova peraltro precisi riscontri nella trattatistica settecentesca e nell’area del costituzionalismo francese, in particolare nell`ultimo Diderot. In questo contesto il Panegirico va considerato, secondo Rando, come la trasposizione nel passato di una precisa e attuale proposta politica (ivi, p. 81), tanto è vero che «nella famosa lettera datata 14 mars 1789 e indirizzata a Luigi XVI, egli riprende (e lo dice) le stesse argomentazioni che Plinio aveva usato per convincere il suo Imperatore e formula al re dei francesi lo stesso invito che Plinio aveva rivolto a Traiano» (ivi, p. 82).

  1. Ivi, p. 47.
  2. Ivi, p. 49.

[9] Ivi, p. 53 (versione 2007, p. 62).

[10] RANDQ, Alfieri europeo, pp. 9-15. Queste parole non risalgono al 1980 ma sono state scritte nel 2007 per la ripubblicazione dei Tre saggi alfieriani nel volume Alfieri europeo, e riassumono efficacemente le ragioni e le intenzioni del libro.

[11] RAND0, Alfieri europeo, pp. 75-76. Christian Del Vento è partito dalle tesi di Rando per approfondire l’analisi del «regime costituzionale» pensato da Alfieri con le modifiche e le aggiunte del 1790 alla Tirannide, sostenendo che attraverso esse l’autore si è concentrato sulle «specificità del “giusto governo”» e ha delineato «in modo sufficientemente preciso il proprio concetto di “repubblica”» come «un “giusto governo” fondato su una rigida distribuzione del potere e su leggi che siano espressione della “volontà dei più”». Del Vento aveva già potuto sostanziare l’ipotesi di Rando circa le fonti della nuova visione della repubblica, e in particolare della critica a Montesquieu, grazie alla «perlustrazione» della biblioteca alfieriana, nella quale si segnala <<la presenza massiccia della letteratura philosophique e, seppure in misura inferiore, della ricca pubblicistica che accompagnò la fase preliminare della rivoluzione». Ora un’indagine più approfondita consente «di precisare, almeno in parte, i debiti che Alfieri contrasse con la pubblicistica di fine Settecento». Non entro nel merito dell’analisi delle fonti, tra le quali accanto ai pubblicisti dell’epoca prerivoluzionaria occupa un gran posto Machiavelli, i cui Discorsi furono acquistati da Alfieri dopo il 1779, e dunque non poterono influire sulla prima stesura della Tirannide (a meno che il poeta non li avesse conosciuti in precedenza per altre vie). Il catalogo dei libri alfieriani conferma l’influsso di Mably, anch’esso ipotizzato da Rando, e dell’opera La Constitution de l’Angleterre dello scrittore ginevrino ]ean Louis De Lolme, che difendeva  la «superiorità del regime inglese» e della sua «forma costituzionale» considerata addirittura «superiore a quella repubblicana» classica ma comunque di fatto «repubblicana»  (DEL VENTO, Il Principe e il Panegirico, p. 149-159),

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