Siamo in provincia. E che provincia. Provincia della provincia, se è vero che l’Italia intera è, secondo Umberto Eco, «provincia» [dell’impero americano]. Lo si avverte soprattutto dal fatto che, mentre fuori, nel mondo, accadono eventi grandiosi che impegnano proficuamente donne e uomini di forte sentire (beati loro), qui si è costretti a perdere tempo per fronteggiare miseri fatti di provincia. La mentalità provinciale è uno dei mali peggiori della provincia messinese. Quando poi la mentalità provinciale si sposa con l’albagia accademica gli effetti sono vieppiù calamitosi.

Ora, però, la misura è colma. E anche uno, come me, che ha sempre praticato la virtù della discrezione, del lathe biosas, non può più tacere: è tempo di scoprire gli altarini (cosa che la paracultura accademica depreca), perché – stando anche all’evangelo – «necesse est enim ut scandala veniant» (Matteo 18,7), magari sperando di non incappare nei guai che potrebbero conseguirne.

Mi si lasci però dire, preliminarmente, due tre cosette incontrovertibili su di me, e in partigiusepperando.itcolare: a) che vengo dalle barche del Faro, non dai salotti messinesi, con rispetto parlando, né dalle anticamere dei politici; b) che mi sono laureato alla Facoltà di Lettere dell’Università di Messina col massimo dei voti e la lode accademica; c) che sono entrato nell’Università per la porta stretta del merito, senza « servire» e senza portare la borsa ad alcuno; d) che ho lavorato  sodo – ho studiato, ho fatto ricerca sul serio – da solo, nel quasi deserto dell’italianistica messinese, praticamente senza maestri ufficiali (e dov’erano?), ma con tutti i grandi maestri “cartacei” del mondo; e) che ho pubblicato saggi «innovativi» (De Benedetto scripsit) su Vittorio Alfieri, recensiti più che positivamente da studiosi del calibro di Giuseppe Petronio e di Raffaele Spongano, saggi con cui ho «rivoluzionato» (Bárberi Squarotti dixit) la critica alfieriana; f) che sono diventato professore associato a trentasette anni con l’appoggio di Giuseppe Petronio e di Antonio Mazzarino, e con il tiepido consenso di Gianvito Resta (il quale ha gestito, com’è noto, da grand commis del potere democristiano, l’italianistica, in Italia, fino a quando visse, e che, in cambio, chiese a Mazzarino, uomo d’onore, di bandire nella Facoltà di Magistero un concorso di prima fascia [!] di Filologia Medievale e Umanistica [!] per un suo pupillo, semplice assistente[!]); g) che sono diventato professore ordinario di Letteratura Italiana, nonostante la lunga renitenza di Resta (il quale non aveva digerito il mio cortese diniego a entrare a far parte della sua “scuola” – me lo chiese più volte, coi suoi modi curiali: «Io apro sempre a chi bussa alla mia porta» – considerando, evidentemente, un’offesa alla sua persona l’ordinariato in Letteratura Italiana, a Messina (!), di uno studioso che non fosse suo allievo e che fosse amico del suo acerrimo nemico Antonio Mazzarino); h) che ho conseguito, insieme con il mio settore disciplinare, l’eccellenza nella Vqr 2004-2011 (una delle sole cinque eccellenze, all’epoca, dell’Università di Messina).

Scusandomi per la lunghezza del paragrafo, tuttavia inevitabile quando si vuole dire molto in poco spazio, mi corre l’obbligo di chiarire che ho rifiutato gli inviti di Resta soprattutto perché non sono abituato a sgomitare (il “maestro” era circondato da un nugolo di “allievi” assatanati, che rivendicavano a chiare lettere il loro diritto di essere portati presto in cattedra) e perché non so «servire», data la mia natura – e la mia cultura – marinaresca. E poi, stavo bene, dove stavo: «se hai avuto difficoltà, te le sei meritate» mi ha detto, una volta, un servo integrato. Certo, ho la schiena dritta (facendo gli scongiuri) ma, da estroverso naturale, so convivere con tutti, anche con i serpenti (finché non tentano di mordermi).

L’ho fatta lunga? Niente male: i preliminari servono sempre. E poi, sarà cresciuto, parallelamente, l’«orizzonte d’attesa». Abbiate pazienza. Ora vado, di corsa (tecnica performativa), a scoprire gli altarini: ne vedrete delle belle.

Devo tuttavia premettere ancora, per la completezza dell’informazione, che, per natura e per cultura (dopo una carriera tanto sofferta!), mi schiero, sempre e da sempre,  con estrema convinzione, in difesa  del merito e della trasparenza: da ultimo, m’indigna soprattutto l’enorme contraddizione (ma è anche una clamorosa ingiustizia) delle numerose cattedre prive di professori titolari, coperte per supplenza da numerosi ricercatori (con assurdi carichi di lavoro che impediscono loro di fare ricerca!), a fronte di un gran numero di studiosi abilitati all’insegnamento universitario, con montagne di libri pubblicati da Olschki e  da altre case editrici accreditate, e costretti a fare i professori nelle scuole secondarie di provincia o i camerieri in Inghilterra.

Non va tutto ciò – mi chiedo – contro il diritto degli studenti universitari di avere un insegnamento aggiornato e qualificato? Contro il valore superiore della ricerca scientifica e contro la logica dei meriti accertati? Contro l’etica, insomma, e contro la giustizia? A me sembra di sì.

Mi è quindi capitato, l’anno scorso, di levare un grido di dolore per la sorte di uno studioso di vaglia, autore di contributi scientifici di altissimo livello, rimasto fuori dell’Università (in Italia) e costretto a fare il professore in un liceo, nonché di oppormi, contestualmente, con le mie deboli forze (la penna!), nei modi che sono concessi a un professore in provincia, all’arcaica pratica dell’affinità, usata per coprire, con supplenze o con cambiamenti di settore disciplinare, gli insegnamenti di materie fondamentali rimasti scoperti.

Una denuncia civile, la mia, o, tutt’al più, una battaglia d’idee – realistiche o meno che siano – come tante che si fanno ogni giorno in tutte le parti del mondo civile e democratico. Ma, qui, apriti cielo: due professori universitari messinesi, che godono di un certo potere accademico, si sono sentiti offesi, come primedonne isteriche, e hanno dichiarato una guerra dissimulata al sottoscritto, presentandolo come «persona che dice male [?] dell’Università» e che perciò «sarebbe sgradito all’Università [?]» di fronte ad alcuni, allibiti, seri professionisti della commissione di un premio locale (fondato da un’associazione culturale e cogestito, dall’anno scorso, dall’Università) e affermando che un premio assegnato anche dall’Università non si sarebbe potuto attribuire, comunque, per evidente conflitto d’interessi [?], a un professore universitario. Dei due professori inviperiti, uno stava, defilato, alla regia, sotto lo scudo del Rettore (inconsapevole, presumo); l’altro pilotava di fatto i “lavori” all’interno della commissione. È inutile dire che io della mia candidatura a quel premio (e della sua bocciatura) ho saputo solo nel giugno scorso, quando ho scritto una lettera chiarificatrice al Rettore, che stranamente non mi ha ancora risposto (aveva risposto calorosamente a una mia precedente lettera): l’accludo, in calce, con qualche altra, in un dossier di documenti. Dico: non sarebbe stato meglio affrontare il discorso a viso aperto come io avevo fatto? E chiuderla lì, come fanno tutte le persone perbene che hanno punti di vista diversi, piuttosto che diffamare proditoriamente uno dei non molti professori che onorano davvero l’Università di Messina?

Ma la mia indignatio durò poco: io sono notoriamente un buono. Mi soccorse la moderazione che mio padre, vecchio accademico dei Lincei, mi ha inculcato: «Fimmini senza cori e omini senza facci: arassu». Decisi perciò dii tenermi lontano [arassu] dai due colleghi inveleniti: «Mettiti con quelli migliori di te e rimettici le spese» (sempre mio padre, tradotto verghianamente in italiano). E, scottato, vietai espressamente all’associazione suddetta di fare il mio nome, d’allora in poi, in qualsiasi occasione, senza il mio assenso. Saluti di là, saluti di qua. Era la pax paramafiosa?

Sia come sia – non ci credereste – qualche settimana fa, mi giunse notizia di un rinnovato attacco della solita “ditta” contro di me, nella prima riunione della commissione per l’assegnazione del solito premio. E allora mi sono proprio rotto i cabasisi, col permesso di Camilleri: «Non se ne può più». Perciò, ho cominciato a menare fendenti da orbi, con qualche ripensamento tuttavia: non so infierire. Ma stavolta non mi fermo più.

Dunque, in quella riunione, gli stessi professori universitari  che compongono la quasi metà della commissione suddetta (quattro, compreso il “pilota”, vs cinque scelti dall’Associazione) hanno prima messo il veto a Rando, non sapendo che Rando aveva espressamente vietato all’associazione di fare il suo nome  (uno dei tre caudatari, evidentemente ossessionato, come il suo “principale”, dalla mia possibile candidatura, ha esordito imponendo: «Non riproponiamo il caso Rando!», con il plauso del “principale”), e poi – sentite, sentite – forti del loro “fascino” accademico (o paramafioso?), hanno imposto agli impauriti commissari dell’associazione tremebonda l’assegnazione del premio addirittura a quattro professori universitari (e dov’è finito il conflitto d’interessi?). Sono, questi ultimi, beninteso, onesti professionisti, ancorché nessuno di loro abbia mai scritto saggi innovativi né conseguito l’eccellenza nella Vqr né contribuito alla crescita culturale, politica e sociale del territorio (che si sappia): intellettuali integrati, certamente, e della stessa pasta dei due loro mentori (similes cum similibus): potenziali, se non effettivi, gregari: ne hanno dovuto prendere quattro per sostituire me (e non bastano).

Ma poi, questi pusillanimi cresciuti nella bambagia, foraggiati lautamente alla greppia accademica – rampollo di nobile prosapia, l’uno, ed epigono d’inclita “scuola” (sulle “virtù” della quale si rilegga quel bellissimo pamphlet che è Messina sul sofà di Adele Fortino), l’altro  –, non possono assolutamente capire che io sono ormai fuori dalla portata dei loro insulti e che non ho assolutamente bisogno del loro premio farlocco: ne ricevo infiniti, veri e sinceri, di pura stima, dalle migliaia di allievi a cui ho trasmesso saperi e valori tra Sicilia e Calabria (s’insegna quello che si è), nonché dalla cittadinanza che mi onora della sua considerazione diuturna, e dagli amici con cui collaboro da sempre nel campo sociale e culturale. E poi, ragazzi, io ho iscritto il cognome di mio padre, pescatore dello Stretto (e linceo a tempo perso), nel grande libro della critica letteraria italiana: What else?

Certo, senza volerlo, devo avere toccato più di un nervo scoperto, se questi grigi rodomonti si sentono ancora offesi e muoiono di bile mentre io mi godo la mia terza giovinezza (toccando ferro). Costoro, lasciatemelo dire, sono tipici prodotti di un’arcaica, arretrata, fascistoide mentalità accademica: non distinguono tra critica (costruttiva) e maldicenza e non si rendono conto che non si possono fare vendette personali (vendetta.1 e vedetta.2) sotto il nobile stemma dell’Università. Li dovreste vedere nelle pubbliche assemblee: sorrisetti (di maniera), mossettine, supercazzole e, di fronte alla minima opposizione, un’improvvisa, stridula, nevrotica levata di voce, come di chi si ritenga oggetto di lesa maestà [de che?].

Ma voglio chiudere in bellezza e in maniera antiaccademica, recuperando un’ironica espressione che coglievo da bambino sulla bocca dei pescatori del Faro: «Si non mi vanti tu, mi vantu ieu». Mi candido, dunque,  al premio Cariddi, appena istituito. E me lo assegno, ridendo a crepapelle.

 

PREMIO CARIDDI 2017

AL PROFESSORE GIUSEPPE RANDO, MESSINESE DI MARE, ORDINARIO DI LETTERATURA ITALIANA,

PER AVERE ONORATO LA SUA PROFESSIONE E LA RICERCA SCIENTIFICA,

PER AVERE RIVOLUZIONATO LA CRITICA ALFIERIANA,

PER AVERE DATO IL SUO FATTIVO CONTRIBUTO ALLO SVILUPPO CULTURALE, POLITICO E SOCIALE DELL’AREA DELLO STRETTO.

 

DOSSIER

DOCUMENTO N. 1

Messina, 10 luglio 2017

Caro Rettore,

nel congratularmi per le innovazioni del Suo rettorato e per gli effetti positivi che già ne derivano, approfitto della Sua gentilezza per informarLa – volando più basso – su due incresciosi fraintendimenti che hanno rischiato di pregiudicare il mio rapporto, sempre costruttivo e corretto, con l’Istituzione da Lei egregiamente governata.

Premetto che, nella mia funzione di professore (associato e ordinario) di Letteratura Italiana, a Messina, non ho mai fatto lotte personali o personalistiche contro chicchessia e che ho sempre anteposto i valori della ricerca scientifica e del merito nonché le esigenze di crescita e professionalizzazione degli studenti a ogni altro criterio. Posso anche avere sbagliato, come tutti gli uomini, soprattutto per ingenuità-autenticità (Mazzarino ha voluto evidenziare, da par suo, in un epigramma latino questa mia umana debolezza), ma non ho mai fatto male ad alcuno, laddove ho sempre rispettato e coltivato i valori dell’amicizia vera (anche questa mia umana attitudine Mazzarino ha voluto sottolineare in un epigramma, che mi permetto di allegare, insieme con l’altro, in calce a questa lettera).

Nel giugno, dunque, dell’anno scorso, avendo da poco lasciato, per limiti d’età, l’insegnamento universitario, ed essendo imminente analogo pensionamento del collega Durante, ho ritenuto che, rimanendo (per macroscopici errori del passato su cui è meglio sorvolare) questa Università priva di professori di Letteratura Italiana di prima e seconda fascia, per tutelare la dignità di una disciplina davvero fondamentale e per salvaguardare le sacrosante esigenze formative e professionali degli studenti, fosse opportuno bandire a Messina almeno un concorso nazionale di Letteratura Italiana, attingendo al serbatoio de 20% dei posti assegnati direttamente agli abilitati, anche per evitare la pratica delle supplenze affidate annualmente a professori di materie affini (arcaica prassi, invero, quella dell’affinità, a stento accettabile – giammai encomiabile – nell’Italietta agropastorale d’antan, in cui non abbondavano, certo, gli specialisti patentati). Ero peraltro convinto, sulla base di mezze, allusive parole udite, che si pensasse, in Dipartimento, di insistere sulla vecchia strada dell’affinità:[omissis].

Ricordo che avevo dapprima chiesto, per vie ufficiali, un colloquio con Lei, caro Rettore, ma la mia richiesta non era andata a buon fine (per più di un mese, mi è stato detto che Lei era fuori per motivi istituzionali). Perciò, ho scritto direttamente al Ministro, in un estremo ma astratto – mi rendo viepiù conto – desiderio di partecipazione, evidenziando quella che si definiva, in Italia, «anomalia messinese» (la mancanza cioè di un professore di Letteratura Italiana a Messina) e auspicando che si trovassero rimedi istituzionali e non biecamente ‘padronali’. Posizione, la mia, non solo minoritaria, ma praticamente solitaria, se non velleitaria: per uno strano destino, io che sono «un estroverso naturale e un siciliano non reticente» (Barberi Squarotti) ho sempre incontrato enormi difficoltà a fare gruppo, in questa città. Ma tant’è.

Credo, ad ogni modo, di poter dire che ero mosso unicamente dal mio risaputo amore per l’insegnamento e dall’attaccamento ineludibile alla mia disciplina («semel magister, semper magister») oltre che, con molta probabilità, dall’educazione cattolica, dalla fede democratica e dal mio temperamento scoutistico che m’impedisce, di norma, di lasciare le cose nello stato in cui le ho trovate e di contribuire, come posso, a migliorarle.

Ho poi saputo che, mentre io (povero ingenuo) lottavo con i mulini a vento, un collega [omissis] aveva già ottenuto dal Consiglio di Dipartimento, e quindi dal Senato accademico, la ratifica della sua richiesta di cambio del settore disciplinare: cambio poi avallato ovviamente dal CUN.

Perdura, dunque, a Messina, la politica restiana del “salto della quaglia” (del settore, pardon) e l’Università di Messina continua a non avere un professore di Letteratura Italiana che sia vincitore di concorso specifico.

Solo io – unico messinese, modestia a parte, ad avere vinto (nonostante la mia travagliata indipendenza da centri politici e/o massonici) un concorso di prima fascia di Letteratura Italiana a Messina – ho inutilmente interrotto una “pratica” negativa che durava da quarant’anni. Pratica riattivata (dopo il mio pensionamento), ma tanto più delittuosa ove si consideri che fior di studiosi, con abilitazione specifica in Letteratura Italiana (L-FIl-LET/10) e montagne di libri pubblicati da Olschki, insegnano, se insegnano, in sperduti Istituti Comprensivi di provincia (nell’ultimo concorso a cattedra per L-FIl-LET/10, sono stati peraltro bocciati tutti i filologi che vi avevano partecipato). Così va il mondo.

Ci sono stati, certamente, filologi insigni, accreditati anche come critici e storici della letteratura (Contini, Segre ), ma si tratta di eccezioni: di norma, Filologia e Letteratura, pure essendo spesso concomitanti, procedono su strade diverse, con competenze diverse, sancite dalla loro appartenenza a due settori disciplinari diversi.

Da questa mia (e dell’italianistica) disavventura nasce, tuttavia, il primo fraintendimento: in collega [omissis] ha creduto ch’io avessi qualcosa contro di lui (non ci pensavo memomamente: dell’uomo e del [omissis]  non avrei da dire che bene) e diffuse la voce (giunta anche alle mie orecchie) che «Rando parla male dell’Università».

In quello stesso lasso di tempo, era successo che, dopo avere assistito [omissis], avevo levato un grido di dolore, solo un grido di dolore, su un mensile locale (di nicchia), per la strana sorte di un ex-giovane studioso, dotato di una ricca produzione scientifica (nota urbi et orbi), neo-abilitato, da esterno, all’insegnamento di [omissis]  nell’Università (in seconda fascia), stimato da tutti i messinesi dabbene, e rimasto però fuori dell’Università (italiana).

Da qui, altro fraintendimento: a) un collega [omissis] che non aveva, obiettivamente, motivo alcuno di dubitare della mia amicizia, prende cappello e grida, anche lui, che «Rando parla male dell’Università».

La verità – mi consenta, caro Rettore – è che io a tutto pensavo, in quelle mie due “uscite” (io intervengo, sempre, magari maldestramente, in difesa di interessi generali, mai contro qualcuno), tranne che a [omissis]. I quali, invece, contro di me hanno agito, subdolamente, sul serio, duramente, almeno in una occasione, in modi non consoni – devo dire – allo stile che dovrebbe essere proprio dei professori universitari.

Poi tutto si è formalmente ricomposto (non so come e perché), secondo un arcaico costume universitario, e ci salutiamo come se nulla fosse stato. E, da parte mia, spero che non ci siano resipiscenze né di qua né di là: a me, le offese scivolano sulle spalle come pioggia primaverile.

Quello che tuttavia mi spinge a rubarLe tempo prezioso, caro Rettore, è l’avvertimento cocente di un paradosso, per non dire ingiustizia, che mi perseguita da troppo tempo e che rischia, a quanto pare, di accentuarsi: un professore che ha fatto sempre il suo dovere onorando oggettivamente l’Università con il suo insegnamento e con la sua ricerca scientifica («Giuseppe Rando ha rivoluzionato la critica alfieriana» [Barberi Squarotti], dimostrando, con «saggi innovativi» [Di Benedetto], che Alfieri è «costituzionalista», non «anarchico» o «reazionario» come si era creduto per decenni), sia stato segnalato come «nemico (!) dell’Università». Non sarebbe stato meglio contestare le mie tesi in pubblico (come io ho fatto) o in privato?

E mi scuso per l’apparente iattanza, ma al fine di documentare queste mie asserzioni – Cassius Clay diceva: «Se puoi provarle non sono vanterie» –, mi permetto di spedirLe in allegato anche una recensione ai miei studi alfieriani uscita su una delle più prestigiose riviste di italianistica («Studi e problemi di critica testuale», 78 [2009]): eventualmente, nel mio curriculum (redatto per l’Accademia Peloritana) troverà più dettagliati riscontri.

E La prego, caro Rettore, di non pensare ch’io sia il solito professore geloso di colleghi più fortunati o insoddisfatto del suo status: al contrario, io sono contentissimo – lo ripeterò fino alla nausea – di avere potuto trasmettere saperi e valori (s’insegna quello che si è) a migliaia di studenti in più di trent’anni di onorata carriera e sono felice di avere dato contributi oggettivi alla ricerca scientifica nonché fiero di avere iscritto il cognome di mio padre, onesto lavoratore del mare, nel libro mastro della critica letteraria. Pare pure ch’io trasmetta – a sentire gli amici – serenità e gioia di vivere (nonostante tutto): quasi mi candido alla santità.

Desidero, ad ogni modo, che Lei sappia ch’io ho rispettato, rispetto e rispetterò l’Università come sede privilegiata dalla ricerca scientifica e della cultura (non come centro di potere) e che, di conseguenza, continuo a lottare, come e dove posso, da cittadino libero e democratico, per il suo alto statuto di cultura e civiltà.

Ma – mi permetto di insistere – far passare me come nemico dell’Università è, prima che un’ingiustizia grande come una casa, un paradosso ultrapirandelliano.

Con stima

Giuseppe Rando

 

ALLEGATI

Da: Antonio MAZZARINO, Scherzi, Nuova Edizioni del Gallo, Roma 1991, pp. 59, 61.

 

Ad Josephum Rando

 

‘Ingenii’ ‘ingenui’que eadem est, ut constat, origo.

Num dibitas? Randus commonet idque probat.

 

 

Ad eundem

 

Plus potuit tua epistula apud me quam Ciceronis

pagina vel Senecae, Rande, homo Amicitiae

custos et cultor: cui gratiam et ingenium di

perfuse dederunt perpetuoque dabunt.

 

DOCUMENTO N.2

 

 

Messina, 5 ottobre 2017

Caro Rettore,

non avendo ricevuto alcun riscontro della lettera che Le ho spedito il 10 luglio u. s. relativamente a certi fraintendimenti “accademici” di cui ritengo di essere stato vittima (di fatto, potrebbe non averla ricevuta), mi pregio di rispedirLe, per via ufficiale, quella lettera con i relativi allegati, anche per sapere se è risolta – come mi auguro – la penosa vicenda.

Ovviamente, mi scuso per l’incomodo – Lei ha ben altro a cui pensare – e confesso che mi sarebbe bastato un accenno verbale qualora ci fossimo rivisti (ma non è stato possibile, mea culpa) dopo l’ultimo, cordiale incontro all’Accademia Peloritana.

Epperò questa lettera vale, in subordine, anche come richiesta ufficiale di un colloquio in data e ora di Suo piacimento: forse, di certe amenità è meglio parlare che scrivere.

Veda Lei di scegliere la via più giusta per liberarmi da ogni dubbio.

 

Distinti, cordiali saluti

Prof. Giuseppe Rando

 

 

 

DOCUMENTO N.3                  Lettera al Direttore del Dipartimento, Mario Bolognari  scritta tra il 5 e il 21 ottobre

 

Caro Mario,

gli amici dell’Associazione “Hortus Animae”, a cui – da intellettuale democratico “di sinistra” che non ha mai inteso la cultura in termini accademici – do qualche consiglio in merito alle tecniche della poesia contemporanea e al rapporto lingua-dialetto (per non dire delle frequenti incursioni – è un mio vezzo – nel mondo della critica, della storia, della politica, della psicologia, della filosofia e delle scienze umane), mi riferiscono che tu mi consideri «non gradito all’Università», ancorché tu stesso non abbia «niente contro Pippo Rando» (e ci mancherebbe) e che, perciò, ti saresti guardato dal contaminarti con la (excuse: partecipare alla) loro ultima manifestazione al Monte di Pietà, cui anche io ero invitato come prefatore della loro rassegna poetica.

Certo, mi faccio risate con i miei amici al pensiero che l’unico professore – o uno dei pochi, diciamo – che hanno effettivamente onorato l’Università degli Studi di Messina (non ha “piazzato” figli e/o amanti, non ha lucrato cariche, non ha scopiazzato, ha fatto ricerca sul serio e ha «rivoluzionato (diceva Bárberi Squarotti) gli studi di sua competenza» (scilicet alfieriani), sarebbe «non gradito all’Università». Mi auguro, per il bene dell’Università, che non sia così: se così fosse sarebbe confermata la tesi dei malevoli i quali pensano che l’Università di Messina (nonostante i tentativi riformatori dell’attuale reggenza) sia alla frutta.

Ma, fortunatamente, non è così. Rando, che effettivamente non è stato mai gradito, in Messina, agli integrati (Eco), ai conformisti, agli allineati, ai disonesti e ai mediocri, non è stato gradito soltanto a due persone dell’establishment che lo hanno malfamato in sua assenza e che ora pare siano – almeno ufficialmente – tornati sui loro passi: né qualche amico, che poteva, ha preso le sue difese.

Ora, ti trasmetto questa lettera che ho inviato tempo fa al Rettore, per renderti edotto della situazione effettiva: il Rettore non smette di dimostrami la sua amicizia.

Domanda finale: «È mai possibile che al povero Rando, figlio di un pescatore dello Stretto, lavoratore egli stesso instancabile, autore di decine di monografie, critico competente e aggiornato, intellettuale libero, sia toccato il duro compito di rappresentare le ragioni del progresso, della libertà, della Cultura, della Ricerca Scientifica, della Sinistra nella sventurata città dello Stretto?». Ai posteri – dice il poeta – l’ardua sentenza.

Amichevolmente

Pippo Rando

DOCUMENTO N.4                         Risposta immediata dello stesso Mario Bolognari

Caro Giuseppe,

le due frasi da me pronunciate in presenza degli amici di Hortus Animae, in un contesto di cordiale scambio di battute e aneddoti, estrapolate dal contesto potrebbero apparire diverse da ciò che, nelle mie intenzioni, sono state. Mentre la seconda è vera (e ci mancherebbe, diresti tu), la prima si riferiva a una serie di commenti che tu stesso conosci, tant’è che le riferisci nella lettera al Rettore che porta una data molto vicina a quella del colloquio mio con gli amici dell’associazione. Avendo detto, quindi, la verità, non capisco quale sia la questione. Che non sono venuto alla manifestazione dei primi d’agosto?

Bene, per tua personale conoscenza, e solo tua, ho spiegato ad Antonio Cattino, che mi ha telefonato forse una decina di volte, che dalla metà luglio e fino alla chiusura dell’Ateneo (9 agosto) sono stato colpito da una bronchite terribile (temperatura corporea a 39,5), che mi ha costretto a una dose industriale di antibiotici e di cortisone. Quest’ultimo farmaco, a me che ho la glicemia leggermente alta, ha provocato un anomalo innalzamento dei valori a 380. Ho trascorso tre settimane chiuso in casa, mancando per la prima volta persino a un consiglio di dipartimento (26 luglio), a due lezioni alla scuola di eccellenza di Villa Pace (24 e 25 luglio), alla consegna dei diplomi di laurea al Teatro antico di Taormina (24 luglio), a quattro ore di lezione presso il Master del prof. Vita al Policlinico, alla commissione didattica d’Ateneo (3 agosto) e un’altra serie di impegni tutti concentrati in quei giorni, compreso un convegno su Gramsci.

Ma guarda tu, se uno deve raccontare i propri problemi personali per giustificare una assenza, sol perché qualche mal pensante deve necessariamente trovare il “motivo” recondito per rimestare dentro i bidoni della spazzatura!

Caro Giuseppe, confermo la mia serenità nei tuoi confronti, ricordandoti che ti ho più volte spinto a transitare nel nostro dipartimento, ben consapevole che questa scelta sarebbe stata da taluni criticata. Non credo di avere mai mancato di rispetto e considerazione nei confronti del tuo lavoro scientifico e del tuo impegno didattico durante la tua permanenza a Civiltà antiche e moderne. Proprio per questo motivo trovo poco coretto che tu abbia proposto al Rettore, scavalcando me, non come persona, ma come direttore del Dipartimento, un concorso in base all’art. 18, quota 20%, di Letteratura italiana, adducendo una motivazione falsa (non c’è nessuno) e gettando un’ombra su giovani che, come tu stesso hai dovuto ammettere nella presentazione del libro pubblicato da Aracne, sono stati giudicati al primo posto in tutta Italia in quanto a risultati della ricerca. Adesso il prof. [omissis] ha anche conseguito l’abilitazione scientifica nazionale a professore ordinario e come tale sarà chiamato, spero, nel 2018. Bandire un concorso ex art. 18, quota 20%, sarebbe stato un errore grave di corretta applicazione della legge e di valutazione delle forze disponibili.

Il passaggio dei colleghi [omissis] a Letteratura italiana è stata sancita dal Ministero (il CUN dà solo un parere) sulla base dei titoli ritenuti coerenti con il SSD. Ma proprio tu, caro Pippo, ti attacchi ai confini disciplinari? Una invenzione, peraltro recente, che non sempre significa qualcosa di culturalmente serio e fondato. Comunque, il futuro della Letteratura italiana è [omissis], uno studioso serio, impegnato come e me e come te nella difesa di valori e principi democratici e progressisti, molto umile, persino riservato, e che quindi non appare come dovrebbe. Lo apprezzerai e rivedrai le tue posizioni sulle sorti della disciplina a Messina. Spero di poter dire quanto prima, anzi ne sono sicuro, la stessa cosa della collega [omissis], che ha presentato domanda per l’abilitazione a professore associato.

Con amicizia

 

DOCUMENTO N. 6      \        Mia risposta immediata

Caro Mario, non puoi nemmeno immaginare quanto mi dispiace per i tuoi problemi di salute estivi (che mi auguro siano stati debellati) e soprattutto per l’impressione che ha suscitato la mia lettera: forse, il piacere di scrivere e di comunicare mi prende la mano (avrei dovuto fare lo scrittore!) e mi fa dire altro rispetto a quello che voglio: sarà la polisemia dei testi …

Certo, non c’era alcuna intenzione polemica o inquisitoria – non è nel mio DNA – nei tuoi confronti: sei un amico (l’ho detto in pubblico e scritto anche), un direttore correttissimo e competente, un signor professore, un intellettuale libero e democratico.

C’era un po’ di stizza, sì, per la nomea che mi sono fatto di subdolo “nemico dell’Università”. Io? E di questa stizza volevo far partecipe te, amichevolmente appunto.

Per quanto riguarda quel vagheggiato concorso, ricordo solo che fosti tu a parlarmi del 20% e della legge relativa (che non conoscevo). Ho anche l’impressione che ti sembrasse difficile o impossibile che si facesse a Messina. Perciò, ho pensato di rivolgermi al Rettore che avrebbe potuto – speravo – darmi e darci una mano per il bene dell’Università e dell’italianistica messinese. Per il resto, credo di avere solo fotografato la situazione dell’epoca, senza mancare di rispetto ad alcuno. Ma capisco che molto (se non tutto) è relativo.

Sono contentissimo per [omissis] che stimo, ma che, all’epoca, non aveva superato l’esame di abilitazione né per associato né per ordinario, e faccio i migliori auguri ad [omissis].

A uno come me, estremamente consapevole dell’enorme funzione culturale e professionale dell’insegnamento della letteratura italiana, il solo pensiero che, per almeno un lustro, non ci sarebbe stato a Messina un professore associato o ordinario di Letteratura Italiana, ma – secondo prassi locale – un supplente per affinità (nemmeno immaginavo che il collega [omissis] pensasse, alla sua età, a un cambio di settore disciplinare), ha fatto scattare la mia corda … idealistica. Non credo di avere detto mai il falso.

Fermo restando il mio rispetto per i colleghi [omissis], fare il “salto della quaglia” da un settore disciplinare ad altro “affine” mentre in Italia ci sono fior di studiosi abilitati all’insegnamento specifico, con caterve di libri pubblicati in collane prestigiose di editori rinomati, e costretti a fare i professori in una scuola media a Roccacannuccia, non è giusto. O quantomeno non è a vantaggio della disciplina né degli studenti. E ciò pensando e scrivendo non uccido nessuno. Anzi, sono per la vita, per il cambiamento e per il progresso.

Mi pare, dunque, che quella mia idealistica (e perdente!) iniziativa abbia suscitato, a mio danno, la classica bufera in un bicchiere d’acqua. E tuttavia imparo (alla mia età) che una voce dissonante in un contesto quietistico (si può dire, senza che qualcuno si senta offeso?) può avere l’effetto di una bomba. Vedrò di essere meno bombarolo. Ma mi chiedo se non sarebbe tempo che certe bombe esplodessero, per il bene dell’Università italiana.

Con sincera amicizia e profondissima stima, Pippo.

 

DOCUMENTO N. 4                Stessa data della precedente

Cari colleghi e amici,

mentre, mi appresto a votare e a far votare per il Partito Democratico (da sempre il mio partito) e in ispecie per De Domenico, un amico dell’establishment mi comunica di avere capito, con dispiacere, che «Rando non è gradito all’Università».

Certo, mi faccio risate con i miei amici al pensiero che uno dei pochi professori – diciamo – che hanno effettivamente onorato l’Università degli Studi di Messina (non ha “piazzato” figli, servi e/o amanti, non ha lucrato cariche, non ha scopiazzato, ha fatto ricerca sul serio, ha pubblicato libri e saggi «innovativi», per dirla con Di Benedetto), sarebbe «non gradito all’Università».

Ora, mi auguro, per il bene dell’Università, che non sia così: se così fosse sarebbe confermata la tesi dei ciechi e dei malevoli i quali pensano che l’Università di Messina (nonostante i notevoli, encomiabili tentativi riformatori dell’attuale reggenza) sia alla frutta.

Ma, fortunatamente, non è così. Rando, che non è stato mai gradito, in Messina, agli integrati (Eco), ai conformisti, agli allineati, ai fascisti ecc., non è stato gradito, per incredibili fraintendimenti, soltanto a due rispettabili persone dell’establishment che lo hanno screditato in sua assenza.

Quel che è certo è che io, nei due casi specifici, ho fatto, forsanche maldestramente ed astrattamente, una battaglia di idee, a cui si è risposto con insulti gratuiti sul piano personale e con la pretesa di essere non Caio o Sempronio ma addirittura l’Università.

A uno come me, estremamente consapevole dell’enorme funzione culturale e professionale dell’insegnamento della letteratura italiana (cui ho dedicato quasi tutta la vita lottando anche contro vere roccaforti “baronali”), il solo pensiero che, per almeno un lustro, non ci sarebbe stato a Messina un professore associato o ordinario di Letteratura Italiana, ma – secondo prassi locale – un supplente per affinità, ha fatto scattare la mia corda … idealistica. Non ho ucciso nessuno. Anzi, sono viepiù per la vita, cioè per il cambiamento. Mi scuso per qualche involontario errore e spero che i fraintendimenti e gli screzi possano essere davvero superati.

Domanda finale: «È mai possibile che al povero Rando, figlio di un pescatore dello Stretto, intellettuale libero (purtroppo isolato e debole) sia toccato il duro compito di rappresentare le ragioni del progresso, della libertà, della Cultura, della Ricerca Scientifica, della Sinistra al postutto, nella sventurata città dello Stretto?». Ai posteri – dice il poeta – l’ardua sentenza.

Con molta cordialità

Giuseppe Rando

 

DOCUMENTO N. 5

Messina, 21ottobre 2017

Caro Rettore,

mentre, mi appresto a votare e a far votare per il Partito Democratico (da sempre il mio partito) e in ispecie per De Domenico, un comune amico mi comunica di avere capito, con dispiacere, che «Rando non è gradito all’Università».

Certo, mi faccio risate con i miei amici al pensiero che proprio uno dei professori che hanno effettivamente onorato l’Università degli Studi di Messina (non ha “piazzato” figli, servi e/o amanti; non ha lucrato cariche; non ha scopiazzato; ha fatto ricerca sul serio; ha pubblicato libri e saggi «innovativi» – Di Benedetto scripsit -; ha trasmesso, per più di un trentennio, saperi e valori – s’insegna quello che si è – a migliaia di studenti) sarebbe «non gradito all’Università».

Ora, caro Rettore, mi auguro, per il bene dell’Università, che si tratti di una fake news o di una supercazzola: se così non fosse, sarebbe confermata la tesi dei ciechi e dei malevoli i quali pensano che l’Università di Messina (nonostante i notevoli, encomiabili tentativi riformatori dell’attuale reggenza) sia alla frutta.

Ma, fortunatamente, non è così. È vero, invece, che Rando, qualche mese fa,come Le ho già comunicato  per incredibili fraintendimenti e per sua inguaribile ingenuità, ha urtato la sensibilità di due sole, rispettabili persone dell’establishment che lo hanno, quindi, screditato alla prima occasione, con la pretesa – parrebbe – di essere non Caio o Sempronio ma addirittura l’Università. Quel che è certo è che lo stesso Rando ha fatto, sia pure maldestramente ed astrattamente, una battaglia di idee, a cui si è risposto con un attacco, da comari, sul piano personale.

Per dirla a chiare lettere: a uno come me, estremamente consapevole dell’enorme funzione culturale e professionale dell’insegnamento della letteratura italiana (cui ho dedicato quasi tutta la vita lottando anche contro vere roccaforti “baronali”), il solo pensiero che non ci sarebbe stato a Messina, per chissà quanto tempo, un professore associato o ordinario di Letteratura Italiana, ma – secondo prassi locale – uno o più supplenti per affinità, ha fatto scattare la corda … idealistica: facciamo un concorso, sfruttando il 20%: ci sono tanti specialisti, abilitati con montagne di libri pubblicati in collane rinomate di editori prestigiosi, che fanno i professori nella scuola media di Roccacannuccia e in altre della provincia estrema. Non ho, invero, ucciso nessuno. E tuttavia, col senno di poi, vista la conclusione della vicenda, mi scuso per quella che si è rivelata una proposta sbagliata e del tutto irrealistica. Mi hanno tradito il mio temperamento (non sono un «pesce di brodo»), la mia ansia di giustizia, il mio isolamento e – concedo – la pretesa forsanche di sentirmi investito, da intellettuale democratico fin nei cromosomi, da chissà quale missione risanatrice. Del secondo caso, un grido di dolore – in un giornale locale online! – sull’amara vicenda di uno studioso serio rimasto fuori dell’Università, simile a tanti altri che si levano in ogni parte dello Stivale sulle contraddizioni del mondo accademico, non vale la pena di parlare.

Mi pare, ad ogni modo, che quella mia idealistica (e perdente, quindi sbagliata) iniziativa contro l’arcaica pratica dell’affinità (appena accettabile nell’Italia agropastorale degli anni Sessanta del secolo scorso, quando non abbondavano, certo, gli studiosi specialisti nelle varie discipline), giammai contro Tizio o Sempronio, abbia suscitato la classica bufera in un bicchiere d’acqua. E tuttavia imparo (alla mia età!) che una voce appena dissonante in un contesto quietistico (si può dire senza che qualcuno si senta offeso?) può avere l’effetto di una bomba. Vedrò, da ventenne canuto (!), di essere meno bombarolo è più realista in futuro.

Non mi si faccia però passare per un nemico dell’Università: sarebbe – ribadisco – oltre che un’ingiustizia plateale, un paradosso ultra pirandelliano: sono altrove coloro che, minando realmente il prestigio di questa nobile istituzione con i loro comportamenti concreti e persistenti, dovrebbero essere «non graditi all’Università».

Con immutata stima

Giuseppe Rando

 

 

DOCUMENTO N. 6                  Lettera al prof. [omissis], scritta dopo il 21 ottobre

Caro [omissis],

ti scrivo perché non mi rassegno alla non-verità (o post- verità) del relativismo assoluto e perché ho un insopprimibile istinto al dialogo, che è, per me, preferibile a qualsiasi altra maniera di rapportarsi agli altri.

Ribadisco, dunque, davanti a te, agli uomini e – se è possibile – a Dio, che quando mi sono imbarcato nell’ idealistica – astratta, col senno di poi – impresa anti supplenza per affinità, a tutto pensavo tranne che a te.

Pensavo tutt’al più che tu avresti accettato la situazione per tradizione e per necessità e che ci fosse bisogno di qualcuno con “le mani libere” da legami accademici (uno come!) per mettere il dito nella piaga.

[omissis]. Vedevo solo il Dipartimento privo di un professore ordinario o associato di Letteratura Italiana e mi sembrava che si dovesse porre al più presto riparo a tale anomalia.

Tu stesso, hai fatto, una volta, in mia presenza, una considerazione che mi è rimasta impressa come la meno accademica e la più autentica che ti avessi mai sentita profferire:  [Omissis] .

[omissis]. Poi, per non dover rimpiangere domani di essermi arreso troppo presto, ho lottato come ho potuto, con gli strumenti che ancora la democrazia mi concede. Sempre per un’idea e non contro alcuno.

Certo, se avessi avuto, nel tempo che sono rimasto al Dipartimento, un dialogo meno occasionale con te, avrei potuto risparmiarmi la mala figura, ma è andata così e purtroppo «factum infectum fieri nequit».

Continueremo, dunque, a fingere rapporti di buon vicinato e a danneggiare noi stessi e la nostra bella disciplina per ritorsione (di che?)? Sinceramente, mi auguro di no.

Resto in attesa di un tuo gradito riscontro.

Con la solita franchezza

Pippo Rando

 

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