C’è una sorta di dimorfismo nella vita e nell’opera di Rosinella Celeste Lucas. Il dimorfismo genetico, innanzi tutto,  di chi nasce da un padre meridionale (siciliano, messinese, nella fattispecie: il famoso Giovanni Celeste, mitico campione della Unione Sportiva Peloro, divenuto tenente di vascello e morto in guerra al comando del sommergibile FR. 111, affondato al largo di Augusta, da tre cacciabombardieri alleati, il 28 febbraio 1943) e da madre friulana (Elodia Miniussi di Monfalcone). Il dimorfismo culturale, quindi, tipico di chi è vissuto tra due “mondi” assai distanti e certamente diversi: quello siciliano immediatamente postbellico e quello friulano, per l’appunto. Un dimorfismo poetico, di conseguenza, sia per quanto riguarda il livello tematico dell’opera celestiana (quasi paradigmaticamente articolato in un filone autobiografico messinese e in un filone autobiografico goriziano), sia per quanto riguarda il livello strutturale in cui si alternano o s’intrecciano il taglio lirico e il taglio narrativo dei componimenti, sia per quanto riguarda il piano stilistico, giocato sui due versanti del realismo (degli oggetti, dei corpi, dei colori, dei sapori) e del misurato simbolismo (di stampo postermetico), all’insegna di una tendenza introspettiva che non si fa fatica a riconoscere come mitteleuropea (la linea Slataper, Saba, Stuparich indicata, giustamente, da Fulvio Tomizza non è casuale).

Ma non è affatto oppositiva. dualistica, tormentata la poesia di Rosinella Celeste, nella quale, invece, ogni tipo di conflitto (possibile o reale) si compone in una cifra di superiore armonia: la vita è, difatti, assaporata dalla poetessa siculo-friulana tanto nei doni che elargisce (i giochi dell’infanzia, i sogni dell’adolescenza, le gioie dell’amore, gli incanti della natura), quanto nei dolori, nelle delusioni, e/o nei traumi che purtroppo la contrassegnano (la morte e la ricerca infinita del padre, il volo di morte degli aerei in guerra, le umiliazioni patite dai nazifascisti, la morte cruenta del primo amore, Melo, a Villa Lina, le tristitiae della maturità). E ciò – si badi – con i toni misurati di una saggia, serena moralità e talora con un pizzico di ironia o con un vago, appena accennato, rimpianto delle gioie perdute. Ma sempre nei moduli di una limpida, varia, fresca, sicura musicalità.

Ultimo – in ordine di tempo – e più maturo frutto poetico di Rosinella Celeste Lucas è la raccolta Giù la maschera, pubblicata a Udine, da Gaspari Editore, nel 2015.

Vi si evidenzia, chiaramente, la dimensione visiva, ma anche introspettiva della sua poesia in cui l’autobiografismo di fondo si stempera in forme simboliche e allusive di grande bellezza.

Si rilegga Campanili:

 

 

Amo i campanili, muti di notte

La scialba luce dell’orologio

Come occhio sbarrato

Da stanchezza vecchia

Che s’innesta con la mia.

Amo i campanili come gli alberi

Quelli modesti, campagnoli

Quelli sfrontati, di merletti e trafori

Quelli dimenticati in vaste radure

Come un uomo da riamare

Intravisto a distanza.

Per un colpo di batocchio

In chiaroscuro di memoria

Ritorna un ragazzo

-maglietta a righe e gambe puledrine –

Sulla torre campanaria

Uccellino garrulo e sfrontato

Mi volteggia sul cuore (p. 17).

Come ognun vede, la poetessa utilizza elettivamente il piano medio, discorsivo, referenziale della lingua (campanili, orologio, alberi, batocchio, maglietta, gambe) e sfrutta le associazioni inedite di sostantivo e aggettivo («campanili […] muti»; «gambe puledrine») nonché le risorse discorsivo-musicali dell’enjambement («stanchezza vecchia / che s’innesta») e le similitudini eleganti («quelli dimenticati in vaste radure / come un uomo da riamare»): erede in ciò della migliore tradizione poetica novecentesca (e non solo). Ma il guizzo finale della metafora con cui un ragazzo dell’infanzia messinese con «maglietta a righe e gambe puledrine» diventa, per incanto, un «uccellino garrulo e sfrontato» che «mi volteggia nel cuore», sfiora il sublime.

Sono, in gran parte, amorosi, peraltro, i componimenti di questa pregevole plaquette: l’amore, eterno e sempre nuovo, con il suo corredo di sensualità, di felicità, di abbandoni, di rimpianti, di delusioni, ma sempre vivificante.

Si rilegga almeno Assioma, Mistero, Medea 2000, Imprudenza, Sorriso, Senz’ali, Bracconiere, Onda anomala, Giù la maschera, Senza resa.

Dove non c’è l’amore ci sono le vicende dolci-amare dell’esistenza nelle poesie di Rosinella Celeste. Si veda Fratelli, Nuda, Al sicuro, Rinvio.

Appaiono, però, tanto intimamente connesse e interrelate le liriche di Giù la maschera che si possono leggere come una sorta di lungo poemetto epico- lirico articolato in sei sezioni attraverso espliciti o sottintesi rimandi: la prima sezione (pp. 13 -28) comprende liriche brevi, quasi haiku giapponesi o frammenti di lirici greci, centrati sull’amore o su aspetti peculiari della vita dell’io poetante; la seconda (pp. 29- 45) si muove tra recuperi sempre vivi del passato siciliano e sguardi intensi sul lungo tempo friulano; nella terza (pp. 46-56) si rifà urgente il tema dell’amore; nella quarta (pp. 57-63) emergono viepiù nitidi luoghi, usanze, pietanze, vini friulani; la sesta (p. 64) è costituita da una sola poesia Diamanti rossi,  stupendo explicit dell’opera, che fa da pendant con Racconto, la poesia con cui si apre la raccolta stessa.

Si consideri che l’ouverture di Racconto è friulana per antonomasia: alla descrizione del paesaggio esterno («Piove che sembra autunno. /A metà giugno piove/ senza una scossa. I muri / sfilano stretti […]»), segue il riferimento alle usanze familiari, interne («Adesso / conviene preparare / le marmellate e il fondo / grommoso delle botti.») e, per subitaneo trapasso, il riferimento alla difficoltà di vivere l’amore dopo agosto, mese-emblema di fine dell’estate e della giovinezza. Laddove l’explicit di Diamanti rossi è all’insegna della sicilianità più autentica: i peperoncini (alias diamanti) rossi del Sud sono il giusto antidoto alla malinconia, alla depressione, alla noia, alla solitudine del Nord (il tramite è assicurato anche dalla parola «noia» con cui si chiude Racconto e che campeggia nel centro di Diamanti rossi («Quando la noia ti piove attorno / porta il pensiero al Sud, ai ‘Diamanti rossi’».

E non si finirebbe mai di delibare la scrittura di Rosinella Celeste, che è «scorciata, allusiva, rapida ed elegante» secondo la perfetta definizione che ne ha dato il prefatore Licio Damiani, e, nel contempo, la varietà dei suoi registri espressivi e il suo controllato lirismo e alcune sue sapide aperture alla poesia narrativa.

Il taglio lirico-narrativo è palpabile in Vagna 1916 (p. 35) e ne Il partigiano (p. 36), due liriche sociali, risolte nei modi tuttavia personalissimi della poetessa siculo-friulana. Nella prima, la rievocazione attraverso gli occhi della nonna («dal naso sottile», che «profumava di melissa»: l’immagine ritornerà tale quale nei racconti, come vedremo) dell’esperienza ella Grande Guerra e del Campo Profughi di Vagna. Nella seconda, il racconto creaturale del coprifuoco patito durante la guerra da lei abbracciata alla madre, della morte di Melo e del «mitra Gestapo» che «gelava la nuca» della mamma.

Una silloge totalmente pregna di colori, umori e sapori friulani è Vino amore e poesia, in cui le liriche sono mirabilmente associate agli splendidi disegni di Arrigo Poz e arricchite dalla Postfazione di Paolo Maurensig. Al vino si accompagna, per vie, nemmeno troppo sottili, l’amore. Si rilegga la sensualissima Vendemmia («vendemmi il mio corpo / spremi i miei fianchi / e svuoti la mia anima notturna»), Ramandolo («E leggo nell’antico vino / i graffiti di un amore»), Tocai (dove ritorna il «muletto acerbo e scanzonato» dell’adolescenza), Schippettino, Bacò, Ribolla gialla, Madera, Riesling.

L’anima sensibile, memore e partecipe di Rosinella Celeste si riverbera altrettanto distesamente nel bel libro di prose poetiche, intitolato, a ragione, Bora e Scirocco, quasi a suggellare metaforicamente le due stagioni – quella friulana (Bora) e quella siciliana (Scirocco) – della sua vita. Due stagioni certamente diverse ma – alla fine – complementari, giammai antitetiche; così come la scrittura in prosa – questa scrittura in prosa – non è affatto antitetica, come succede altrove, a quella in versi. Talché gli stessi stilemi, la stessa lingua «scorciata, allusiva, rapida ed elegante», gli stessi eventi, gli stessi personaggi sono talvolta presenti nelle poesie e nelle prose.

Una prima sezione (pp. 11-34) del libro contiene racconti intonati alle infantili esperienze dell’io narrante in terra friulana dopo la «fuga precipitosa da Messina» (la madre, la nonna «dal naso sottile» che «profumava di melissa», le fiabe, la madre di Magda che «veniva calciata con violenza lungo il Corso del Popolo» dai tedeschi perché aveva servito i “banditen dei monti”, la polenta, le ciciole, le martondelle, il salame dolce, la coppa, il prosciutto, il bollito con le ossa, il Musèr, la Brovada, il Carso, Monfalcone, Trieste, i soldati ‘Titini’); segue una serie altrettanto incantevole (pp. 35-58) di racconti relativi al breve soggiorno della scrittrice, da bambina,  nella città natale (il ricordo del padre, lei «orfana-feticcio» dei parenti stretti, gli zii, le zie, le suore, le preghiere, Padre Paolo che dava pizzicotti sul sedere, la signorina Nuccia, badante del parroco, i cugini, Melo, l’amore infantile, morto malamente a Villa Lina); chiude il libro una terza sezione (pp. 59-93), friulana, in cui campeggiano luoghi (Gorizia, Pradumli, Masarolis, Materada) e personaggi (Viva, un’amica morta in circostanze misteriose; il signor Gelindo tanto geloso quanto amante dei luoghi chiusi; un gruppetto di ragazzi balordi; Mariute violentata e crocefissa da due ubriachi, Anita Pittoni; Dino Dardi; Fulvio Tomizza) che hanno attraversato, a vario titolo, la vita della scrittrice.

C’è sempre amore – ma senza alcuna indulgenza idillica o folklorica – nella descrizione del Friuli (di cui si registra con rammarico il passaggio «dai Valzer al Giallo») e nel ricordo di Messina – della Messina immediatamente postbellica –, che è rievocata nei modi sempre molto realistici, aspri, crudi di città massacrata dalle bombe, dalla fame, dalla violenza.

A lettura avvenuta, l’autore implicito  del libro si rivela un intellettuale, una donna, in ispecie, consapevole del male (ma anche del bene) di vivere, ostile ai totalitarismi del secolo breve, laicamente convinta del valore della testimonianza civile e della forza indomabile dell’amore, estranea (dopo le esperienze infantili di un cattolicesimo sconfinante nella pura ritualità e/o nella superstizione) a ogni forma di misticismo religioso: una donna che sa guardare in faccia la realtà, con qualche speranza ma senza troppe illusioni.

 

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