L’Università italiana è una risorsa fondamentale per la nazione, ma purtroppo è malata ed ha bisogno di forti, giuste terapie per guarire. Se ne accorgono i professori riformisti che si spendono, tra mille ostacoli, perché l’Università torni a essere sede primaria della ricerca scientifica e officina perenne della professionalizzazione degli studenti, all’insegna della meritocrazia e della trasparenza. Non se ne accorgono i. professori integrati, di gran lunga maggioritari, che vivono l’Università come privilegio (soprattutto personale) da conservare e tramandare tale quale, nella convinzione che «tout va bien, madame la marquise». Del tutto incuranti delle sorti dell’Università sembrano – e non da oggi – i signori governanti.

Ebbene, l’impegno dei riformisti, oggi, si esercita, in ispecie, contro il silenzio della politica e contro il residuo potere discrezionale dei cosiddetti baroni, che potrebbe essere sradicato da  una nuova regolamentazione dell’autonomia totale e anarcoide di cui oggi godono le Università (i Dipartimenti), a solo vantaggio dei peggiori baroni, e da  una lgiusepperando.itegge che consenta la copertura automatica degli insegnamenti vacanti, di prima e seconda fascia, con professionisti abilitati e vincitori di specifici concorsi, previo accordo tra gli interessati e i Dipartimenti, nel rispetto vincolante di graduatorie nazionali di merito ad esaurimento e con totale copertura da parte dello Stato (è, in fondo, la versione aggiornata della proposta avanzata già negli anni Ottanta da Umberto Eco).

Sarebbe, in tal modo, eliminata alla base la pratica delle plurisupplenze per affinità, che costringono schiere di ricercatori a sostenere carichi di lavoro assurdi (con evidente riduzione delle loro possibilità-capacità di ricerca) e sparirebbe anche il ricorso ad altri excamotage, come il cambiamento di settore disciplinare per affinità (per lo più da settori molto particolari a settori generali), che serve a coprire, secondo arcaiche logiche privatistiche dell’Università, insegnamenti fondamentali, rimasti scoperti, con personale senescente, non sempre competente. E tutto ciò, a fronte di caterve di studiosi abilitati, con dovizia di monografie specifiche pubblicate in collane prestigiose di editori rinomati, costretti a fare i camerieri in Inghilterra o, nella migliore delle ipotesi, i professori di scuole secondarie di primo grado in paesini della sperduta provincia. Con grave nocumento dei diritti degli studenti universitari, dei valori scientifici accertati e della valenza insostituibile della ricerca scientifica.

Si pensi ai numerosi insegnamenti di lingue straniere, per esempio, tenuti in tutta l’Italia da ricercatori oberati di lavoro, in attesa del mitico maestro e forsanche per carenza di fondi delle Università, che verrebbero immediatamente coperti, con una buona riforma della legge, da personale adeguato di prima o di seconda fascia. Laddove l’autonomia totale è – e deve restare – prerogativa dei Dipartimenti delle università private, che con criteri privatistici (ben rimunerati) scelgono i docenti.

Certo, una riforma (l’ennesima!) che avvicini il reclutamento dei professori universitari a quello dei professori della Scuola e soprattutto a quelli dei più avanzati stati europei (contro i fatiscenti miti del Maestro che farebbe sempre scuola e del Dipartimento che farebbe sempre scelte funzionali al territorio), riducendo i margini troppo ampi dell’autonomia e ponendo un freno al localismo esasperato (e al familismo) di molti Dipartimenti, potrebbe non essere disutile, nell’Università statale di massa. Professori integrati e politici “distratti” permettendo.

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