Il dato che balza evidente sin dalla prima, rapida lettura della ricca silloge di Maria Lizzio, La memoria del vento (Edizioni Smasher, Barcellona P. G., 2025) è la caratura decisamente lirica (nel senso leopardiano del termine) dei componimenti, centrati, di fatto, come sono, sull’io poetante, che rievoca l’infanzia felice e gioisce dell’amore, della pace, della fraternità, dell’amicizia, mentre registra fraternamente la fragilità umana, soffre con gli emigranti, compiange le vittime delle guerre, e ricerca, del pari, con incessante anelito, il senso della vita, in un universo dominato dal Nulla. La poetessa avverte, invero, la progressiva insignificanza del mondo (già contadino) che conosce perfettamente ed ama – si pensa a Weinberg, lo scienziato americano, Nobel del 1971, secondo cui «Più il mondo sembra comprensibile, più appare privo di scopo» – guardando, tra mille incertezze, a Dio come via di salvezza dalla solitudine e dal relativismo assoluto in cui si rischia di piombare.  Donde, lo scorrimento, nei versi, di vibrazioni interiori, intime, anche lacerate, e di aspirazioni profonde, umanitarie, persino religiose. Emblematica, a tal riguardo, è Solitudine (253): «Sola come un angelo / senza messaggio / o una notte di neve che cancella sentieri, // atomo nel vuoto, // balbetto sillabe / che rompano il silenzio / e cantino la pena delle cose dimenticate, // sotto un cielo nudo / come pietra».

Peraltro, sul piano linguistico, si evidenzia subito, nella raccolta, la matrice colta, persino raffinata (ma non aulica), di molte locuzioni, lontane da ogni indulgenza al quotidiano discorrere, ma giammai libresche: «Vi trascorre / infinita / la luce / di tutte le primavere / e il fremito del vento / tra le fronde / di tutti gli alberi / e la tenerezza di tutti / gli amori mancati» (Nello spazio dell’anima 17). S’impone altresì all’attenzione del lettore, nelle liriche della Lizzio, il frequente ricorso alla tecnica allusiva, di matrice ermetica, degli accostamenti, spesso inediti, tra sostantivo e aggettivo, o tra sostantivo e verbo.

Si veda come, già nella prima lirica della prima sezione (LA SOLITUDINE DEI SOGNI) delle quattro complessive, i sogni si associno, per nessi interni del tutto sconosciuti al lettore digiuno di studi biblici, «alla luce del Sinai» e procedano, in maniera non consueta, «per strade solinghe di vento e di roccia», mentre i piedi sono – per la prima volta nella storia della poesia – «feriti dall’audacia», pur non essendo quelli di contadini del passato: «ma non sanno /di polvere / o di cenere di camino» (Il cammino dei sogni 1). Sono evidentemente saltati tutti i normali rapporti semantici, spaziali e temporali, dentro una logica nuova. Predomina, in altri termini, in queste poesie, un ardito, nitido simbolismo: quello per cui i sogni sono «infuocati / alabastri di stelle», con lo scarto della similitudine «infuocati come alabastri di stelle». Non è rispettata peraltro la metrica tradizionale ma non è nemmeno perseguita la totale anarchia ungarettiana: la prima strofa è una “normale” sestina di settenari senari e quinari; la seconda una “normale” quartina di versi più brevi; la terza una “normale” terzina di due versi brevi e di un novenario.

Maria Lizzio è, in altri termini, un poeta radicale, portato – secondo lo statuto fenomenico della poesia – a cogliere l’«attimo», in antitesi alla «durata» (tipica del racconto e dell’epica): un poeta postermetico, in definitiva, che ha, in effetti, tesaurizzato la lezione più duratura della poesia ermetica, liberandola però da oscurità gratuite e spingendola verso confini di limpidezza: non per nulla, la poetessa fa esplicito riferimento a Saba (61) a Montale (327), a Eliot (46), a Rilke (321), collocandosi, però, in una posizione sua, certamente distante, com’è, non solo da ogni duro ermetismo, ma soprattutto dagli ambiti “impoetici”, quasi prosastici, di molti poeti contemporanei. Si legga Si fa sera (252), dove l’amarezza del buio (e della solitudine) incombente trova, nel simbolismo delle immagini («Alla mia strada / mancano margini / di luce») e nell’incantevole ritmo dei versi («le braccia spalancate / come in volo»), la giusta risoluzione stilistica.

Le quattro sezioni del libro (probabilmente nate in tempi diversi) sembrano muoversi, sul piano tematico, in una sorta di sincronia ideale: l’io poetante non si stanca, invero, di assaporare tutte le forme, tutti i suoni, tutti i colori in cui si alternano il presente deludente e il passato felice (quello dell’infanzia, in specie), in una sorta di fascinoso ma inquietante equilibrio instabile, che lascia a stento intravedere, oltre il Nulla, un futuro pacificato e gratificante come il passato. Viene fatto di pensare, invero, all’Eliot dei Quattro quartetti. In cui «il tempo presente e il tempo passato / sono entrambi presenti nel tempo futuro, / e il tempo futuro contenuto nel tempo passato».

 

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Nella prima sezione (LA SOLITUDINE DEI SOGNI), risaltano, ab initio, i motivi (onnipresenti nel libro) del ricordo vivificante, del tempo rivissuto, della natura sincera, del sogno rigenerante, della solitudine: basti pensare a Il tempo (14), Bacio il tuo ricordo (15), I solchi della memoria (16), Nello spazio dell’anima (17), Il canto della pioggia (18), Lo strappo del tempo (19), È tardi (20), Attesa (53). Ma vi risuonano anche le note della dolcissima elegia familiare intonata dalla poetessa, tuttavia consapevole dell’irrimediabile distacco (E poi il silenzio, 25), che dialoga in absentia col padre («Non cercare, / padre, / responsi / ai nostri antichi enigmi. // Piange / altro vento / ora / alla mia porta / dove non mi giunge / il passo tuo leggero // e la tua voce». [Non cercare padre, 21]), con la madre («Madre, / stendi ora un tuo lembo / come in vita, // 0ra che avanza il deserto / e arde / Né più consola la frescura / del futuro. //Ma il miracolo è questo ricordare / che si è stati dissetati / in un breve / giorno immortale di primavera». [Preghiera alla madre, 22]) e, in praesentia, con la nipotina Aurora («Ti poso i miei baci /tra i capelli / […] come boccioli al sole / […] E tu mi doni / il tuo canto sottile / di rondine». [Il canto della rondine 85]).

Ma occhieggiano, in versi incalzanti, indagativi, squarci metafisici (Divagazioni sulla Natura e sull’Uomo, 54; Nel respiro dell’universo, 57); Inno alla vita, 58), nonché angosce esistenziali («La consapevolezza di essere / mi consuma le fibre […] / e urge la deriva / fino al nulla». [L’oscura proda 68]) e ritornano, del pari, contro «i mostri» della tecnologia moderna, il bisogno della natura primigenia: «Voglio bagnarmi / nelle tempeste del mare / oggi /[…]. Voglio conoscere le stelle / della mia costellazione // e il dio / che mi perseguita / e protegge». (Non mi basta l’Odissea, 95).

Certo, il lettore ammira la sapiente orchestrazione di versi liberi, ora lunghi, ora brevi (talvolta di un solo termine), tuttavia pregni di indubbia musicalità, e le audaci combinazioni postermetiche di nome e aggettivo, atte a tradurre sensazioni, sentimenti, pensieri in immagini, timbri e colori della natura silvestre o marina: «[…] e la finestra bianca / nell’aprile // si smemora dell’ombra / dei suoi anni / nel tiepido chiarore / dei ciliegi» (D’aprile, 86).

Già nella prima sezione del libro si riflettono per intero, in altri termini, la poetica e la sottesa Weltanschauung dell’autrice.

 

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Un leggero scatto in avanti sul piano stilistico – sempre più scevro, invero, da qualche perdurante vaghezza ermetica – s’avverte nella seconda sezione (LA PRIMA LUCE), dove ritorna, da un lato, l’immedesimazione totale del poeta nella natura («Attesa frastornata / di luce. //Nel silenzio, denso, / la vita preme / come seme la terra. Io sono vento / e polline // e, domani, / campo di girasole». / Dentro la vita, 111), e dall’altro il dramma dell’io poetante di fronte al baratro del Nulla («Quando l’anima sfiora / il Nulla, / può risalire all’alba?», Quando si sfiora il Nulla,115). Si registrano, peraltro, in forme viepiù musicali, i temi dell’amore reale (Le stagioni del cuore, 112), della giustizia invocata (Il profumo del nome, 116), dell’infanzia felice (Nella luce di settembre, 117), della decadenza del mondo moderno (Prometeo, 119), e appaiono le straordinarie epifanie dei vicoli, che «si spengono / nelle nebbie serali», senza «speranze» di miglioramento (Sera nei vicoli, 120) o di una vecchia villa «abitata / da lampi di scirocco» sui cui muri «nelle notti più fitte di mistero / si rifrange / la luna /» (La vecchia villa, 125).

 

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La stessa linea di tendenza verso soluzioni stilistiche viepiù limpide si coglie nella terza sezione (NELLA NUOVA LONTANANZA) in cui ritorna il macrotema della solitudine dell’io, in perenne ricerca del sé («In una notte profonda / di verde infanzia / la pioggia a dirotto / frastornava i sogni // e sapeva di sale. // Anche le stelle / fluttuavano / nel vasto cielo / sopra l’amara culla // senza meta / senza strada. // E mi smarrii / nell’universo immenso. /», La pioggia di sale 216), mentre continua il dialogo con la madre («Volevo tenerti viva / presente / al soffio di luce, // ma non ti giunse in tempo / la mia musica / rapita forse dal gorgo/ nel cammino. /», Come quando la luce è appena morta, 213) e perdurano l’inganno del tempo («Dolorosamente sentire / che è tardi, che ci ha ingannato / il tempo / e ora è tardi.», È tardi, 228), l’amara avvertenza del Nulla ( […] «E l’angoscia / ritorna / al punto vivo / che io sono, / come perduta stella // a concepire / il Nulla.», La porta chiusa, 240), il triste senso del vuoto ([…] «Vuoto il cielo, / si schiantano i pensieri / che nutrirono il giorno, // e vuoto il cuore […].», Vuoto, 257), e il malinconico antagonismo tra presente e passato, dentro un paesaggio già familiare («Le luci dei tram / non scaldano la neve, il vecchio arco / non porta indietro il tempo/ e manca la carezza di un sospiro.», Sera d’inverno, 251). La poetessa dipinge, in effetti, la complessità dell’esistenza, recuperandone timbri e colori nella musicalità dei versi.

 

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Ma soprattutto nella quarta sezione (TERRENA OFFERTA) si illimpidisce mirabilmente lo stile postermetico della Lizzio, toccando – ci pare di poter dire – i vertici del sublime.

Vi trionfa ancora il senso del vuoto, del caso, del Nulla (in un’ottica di poesia filosofica che annulla i presunti confini tra scienza e poesia: «Sei qui, vita, all’incrocio / della gioia e del dolore, / o in un altrove sconosciuto / se non al fuoco della mente?», Dubbio 306), insieme con la fascinazione dell’eterno presente da godere senza volgersi indietro né perdersi nel futuro, nella prospettiva di un Orfeo rivisitato e corretto: «[…] Più / non voltarti / verso la sua ombra: // dal fiume nero / riavvolgi, / placato, / in un velo / la tua musica.», A Orfeo,294-295.

Ma s’impone, ancora, per la bellezza espressiva e la varietà dei toni, l’elegia familiare dei trapassati, nel ricordo vibratile, commosso del fratello («Sei caduto / come l’ultima foglia d’autunno / ghermita dal gelo, // indifeso e lontano, già di un altro universo.», La frontiera, 361), della madre (Madre, al tuo capezzale / mi rivedo, / che già non c’eri // e il giorno – ancora pieno – / s’annerava / e chiudeva / a chi inerme restava. […], Il giorno breve, 308), del padre («Nell’angolo di un giorno antico / fiorisce la luce dei narcisi / come aureola d’angelo o di santo, / fuori dai rovi del tempo. // Lì vidi la tua mano toccare un giorno / la terra, gli occhi guardavano il futuro.», A mio padre, 296: ognuno di questi – e di molti altri, similari – componimenti “familiari” (alle pagine 304, 358, 359, 364, 365, 366, 367, 368, 369, 371, in specie) è un effettivo gioiello di luminosa poesia.

Ricorrente è, altresì, il tema della perfetta fusione (invocata o realizzata) tra l’io poetante e la natura: «[…] S’era abbuiato / il giorno morto, / e piangemmo nel pianto / lungo della pioggia / il gemito rassegnato della terra indifesa, // piccoli e oppressi / dalla tempesta / incomprensibile di maggio.», Il trionfo del sole (311).

In tale vasto contesto, anche il motivo sociale degli emigranti trova splendida risoluzione stilistica: si rilegga Esilio 307, dedicata a Moammed Sceab e ai numerosi suoi compagni («Una palma / in terra straniera, / non bagnata di musica / e di stelle, / non fa ombra di casa […]».), ma anche La madre del soldato, 318 («Lo piange / – lei sola – / lontano, / nella notte nera / del canto lamentoso di un uccello / fra gli alberi / che sfiorano il cielo […]».)

 

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Un libro – diciamolo, a chiare lettere – che resterà, come restano quelli che portano la Poesia agli uomini e alle donne in un pianeta sofferente.

 

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