In memoria di Maria Costa, a cui – apprendo da un amico – verrà intitolata, sabato 5 p.v., alle ore 10, 00, la piazzola di Case basse, a Paradiso.
Maria Costa era certamente messinese, ma, in ispecie, cittadina della Riviera Nord di Messina (che non è un mondo a sé né un paradiso terrestre, ma una realtà socio-culturale ben definita): veniva dalle barche, non – con rispetto parlando – dai salotti; conosceva bene, lo «sciroccu», il «ventu cavaleri», il «maistrali», la «lupatina, la «tramuntana, il «livanti», la «scinnenti», la «muntanti», la «pignatedda» che «bugghiva patati», la «brogna», le «bracere», i «fumenti», le vecchie «chi filavanu la lana», i «rinninuni», il «piscispadu», il «luvarottu», la «ciciredda», la «ncioarina», i «peddisquatra», i «cavuliceddi», l’«aspareddu ntô bucali», il «friddu chi vi tagghiava a facci», i «maistri di nassa»; mostrava, con quel suo busto eretto, la fierezza delle donne dei marinai; parlava la lingua diretta, senza sdolcinature, senza eufemismi e senza ipocrisie moralistiche, della gente di mare; aveva il dono dell’ironia leggera e sorridente che rende meno amara la vita alla gente di mare; gettava ponti, come la gente di mare, e non costruiva muri tra sé e gli altri, come tutti i piccoloborghesi; guardava avanti, come la gente di mare, anche quando rievocava volti, fatti, eventi del passato.
Perciò, senza volere riesumare vecchie polemiche degli anni Sessanta, va detto, serenamente, che Maria Costa non è per nulla assimilabile alla borghesia (piccola, media o alta) messinese: era naturalmente antiborghese o meglio preborghese.
Ma Maria Costa era ed è soprattutto un poeta. Poeta dialettale e popolare in senso pregnante, ma poeta. Possedeva, infatti, chiaramente, i due requisiti fondamentali e imprescindibili perché sia certificata l’esistenza di un poeta: a) una precisa “visione del mondo”; b) l’attitudine a tradurla in versi, in musica. Maria Costa aveva, difatti, un mondo dentro di sé ed aveva, del pari, dentro di sé, l’attitudine – innata, parrebbe – al ritmo, a mettere cioè in versi i pensieri, i sentimenti, le parole e i fatti della vita.
Connota, peraltro, la sua poesia uno stile decisamente affabulatorio e discorsivo, che imprime ai versi un inconfondibile andamento epico-narrativo. Difatti, anche quando, da poeta lirico, coglie attimi, epifanie del suo vissuto, Maria Costa, in realtà, si racconta. Non sorprende, quindi, che questo poeta sia anche un eccellente prosatore: si è che la sua naturale tendenza all’affabulazione s’incanala, da un lato, nelle forme elette della poesia, e sa trovare, dall’altro, le vie “normali” della prosa, propiziando cunti (racconti) di rara bellezza.
Né esistono peculiari differenze tematiche tra i due “generi” nell’opera di Maria Costa: al contrario capita che lo stesso tema (lo stesso fatto, lo stesso personaggio) sia “cantato” in versi e narrato, con immutata sagacia, in un conveniente cuntu. Quanto dire che una identica “visione del mondo” (Weltanschauung, se vogliamo essere accademici) è sottesa alle puisii e ai cunti.
Il mondo che si conserva, intatto ma vitale, dentro la poesia (in versi o in prosa) di Maria Costa è, dunque, il mondo dei pescatori dello Stretto e in particolare dei pescatori del villaggio Paradiso della Riviera Nord di Messina (la «Riviera del Faro», celebrata da Boner nei Racconti peloritani). Questo mondo ella conobbe, frequentò, praticò e assorbì fino a farne fibra delle sue fibre corporee, nel corso dell’infanzia, dell’adolescenza e della giovinezza, vissute nella casa bassa, sul mare di Paradiso, accanto al padre, alla madre, ai fratelli amatissimi, negli anni che precedettero e seguirono la seconda guerra mondiale: il mondo di Maria Costa è, in altri termini, quello siciliano, umile, popolare, povero (giammai misero), marinaresco, preborghese appunto, della prima metà del Novecento, che collide infine con quello ultramoderno della contemporaneità omologata e smarrita, nonostante l’abbondanza dei beni materiali.
E va subito detto che quel mondo marinaresco vive ancora oggi, con i suoi sapori, i suoi odori, le sue voci inconfondibili, solo nella scrittura di Maria Costa, che è, ad un tempo, testimone e protagonista attiva di quella perduta epopea. E però i suoi libri di poesie e di racconti popolari sono, anche, un serbatoio, il più ricco forse, della cultura marinaresca messinese, come ha, più volte, acutamente evidenziato Giuseppe Cavarra, primo mentore della poetessa di Case basse.
Non si pensi però che la poesia e i contenuti demologici si collochino, nei versi della Costa, su due piani irrelati o che, detto in altri termini, i suoi libri siano fruibili sul piano demo-antropologico a prescindere dai valori formali dei singoli testi. Al contrario: il lessico, lo stile, il metro, l’intonazione incrementano notevolmente la portata semantica dei contenuti, che tuttavia riverberano la loro forza sulla forma, dandole un’impronta originale e ardita quanto altre mai. C’è, insomma, un legame inscindibile, più desanctisiano che crociano, tra contenuto e forma nell’opera di questo incantevole poeta del mare.
Si deve, ad ogni modo, a Maria Costa la “salvezza” del patrimonio linguistico protonovecentesco dei pescatori della «Riviera del Faro» di Messina: avendolo la poetessa codificato sulla pagina scritta (e stampata), quel linguaggio ha difatti acquistato la stabilità della lingua. E vale forse la pena di ricordare che un dialetto diventa lingua quando viene codificato, cioè scritto (lo insegnava già Dante Alighieri nel De vulgari eloquentia): le centinaia, se non migliaia, di dialetti non scritti (solo parlati), in Amazzonia e in tutte le parti pre-civili del mondo, praticamente non esistono, non sono lingue: moriranno con quelli che li parlano, a meno che un etnologo non li registri e poi li trascriva.
Invece, il tempo passerà, cambierà il mondo e – con esso – le lingue degli uomini, ma la lingua di Maria Costa e dei pescatori dello Stretto resterà là, fissata in eterno, immutabile nelle pagine delle sue raccolte poetiche (finché ne resterà qualche copia sulla Terra «e finché il Sole / risplenderà su le sciagure umane»).
Quindi, i nostri figli, i nostri nipoti, pronipoti e i loro successori nei secoli a venire, potranno conoscerla, quella lingua. E, con quella lingua, potranno conoscere i valori, i sentimenti, i sogni e i bisogni degli “antichi” pescatori dello Stretto. È uno dei miracoli – il più clamoroso – della poesia. Non fosse altro che per questo, Maria Costa meriterebbe più di un monumento a Messina. Ma non lo avrà, con questi chiari di luna. Meno male che qualcuno oggi finalmente legge le sue poesie. Per troppi anni – se vogliamo essere sinceri fino alla spietatezza – Maria Costa è stata “vissuta” dalla maggioranza dei messinesi, magari abbagliati dai miti della poesia dotta, altolocata, in lingua, e, in ispecie, dalle svagate signore piccolo-borghesi di Messina (che non passeranno, certamente, alla storia) come una sorta di clown pittoresco. Ed era, invece – lo è sempre stata –, a dispetto dei professori-retori, delle signore e dei signori piccoloborghesi, un poeta, «pueta du mari».
E mi si lasci, infine, dire che sono fiero di essere l’unico professore universitario messinese ad avere scritto e pubblicato un saggio sulla sua intera produzione dialettale: la poetessa delle «case basse» di Paradiso ha molto gradito e apprezzato quel saggio che ho poi inserito in un mio volume, Vero e immaginario tra Sicilia e Calabria, oggi ospitato nella famosa Library of Congress di Washinghton e nella prestigiosa Bibliothéque Nationale di Parigi (la relativa notizia che le diedi, un mese prima della sua morte, la commosse fino a un accenno di pianto, tuttavia sorridente, negli occhi).
Giuseppe RANDO

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