C’è, da qualche tempo, a Messina e nella provincia, una fioritura di libri – poesie, racconti, romanzi e saggi storici – davvero confortante: il libro, soprattutto il libro letto, è un ottimo veicolo di cultura, ma anche uno strumento di dialogo, di formazione– per i giovani, in specie – nonché un incentivo fenomenale alla formazione dello spirito critico (cioè indipendente) di chi legge e alla acquisizione del senso di responsabilità, che fa di un adolescente un uomo o una donna adulto/a.

A me è capitato di assistere, nella stessa settimana, alla presentazione di due libri interessanti: giovedì 9 maggio, a Messina, il memoir di Francesco Speciale, “Ricordi e riflessioni sul far della sera” (Edizioni Smasher, Barcellona P. G. 2023) e, domenica 12, a San Pier Niceto, il saggio storico (con movenze da romanzo) di Giuseppe Scibilia, “Il colonnello Russo. Storie di uomini, ominicchi e quaquaraquà” (Calibano Editori, Milano 2023).

Sono due libri che ancora non ho avuto il tempo di leggere e su cui non dovrei dunque parlare né tampoco scrivere, ma di ambedue mi ha colpito la brillante, limpida presentazione, tanto che li ho comprati e li leggerò quanto prima: di ciò vorrei appunto dire, rinviando ad altro tempo, dopo la lettura, una vera e propria recensione.

Il libro del maresciallo Giuseppe Scibilia, sampietrese, è stato presentato nell’affollata aula consiliare del Comune di San Pier Niceto, con molta puntualità e chiarezza, da Isabella Ferrauto che ha interloquito sagacemente con l’autore, leggendo anche brani significativi del testo: abbiamo, dunque, incominciato a intravedere il limpido profilo del colonnello Russo, sodale del generale della Chiesa e comandante del Nucleo Investigativo Carabinieri di Palermo, difensore dello stato democratico, ucciso dalla mafia a Ficuzza il 20 agosto del 1977, vero eroe siciliano dell’antimafia.

Erano anche presenti: Don Santi Scibilia, figlio del maresciallo, nonché il sindaco Domenico Nastasi, il vicesindaco Giuseppe Ruggeri e l’onorevole Santi Formica.

Chi scrive è intervenuto nella discussione successiva, aperta al pubblico, solo per ricordare un articolo, “La mafia in Sicilia”, pubblicato da Enrico Onufrio, giovane scapigliato siciliano, su «Nuova Antologia», nel febbraio 1877, che non tutti conoscono (è stato da me scoperto e ristampato, per la prima volta, nel 2008, da EDAS, a Messina, in un volume contenente “Scritti letterari e saggi dui varia umanità” dello stesso Onufrio).

Ebbene, in quel suo articolo, il giovane scapigliato apprezzato da Verga, afferma, con grande scrupolo documentario, che i mafiosi «nei tempi che precessero la rivoluzione del 1860» potevano «dividersi in tre diverse categorie: camorristi, ricottari e briganti», passando quindi a descriverne le caratteristiche malavitose e auspicando che lo Stato intervenisse «con l’arma della repressione», ma anche con «una giusta politica economica».

Il che sconfessa alla radice, peraltro, l’erronea tesi dell’origine torinese della mafia e la connessa, estremistica, unilaterale condanna dell’Unità d’Italia e del regno dei Savoia, che non fu, certo, immune di colpe, ma che non fu la causa di tutti i mali del mondo, come vogliono i neoborbonici, peraltro screditati da tutti gli storici (di destra, di centro e di sinistra) del Risorgimento.

 

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