I poeti contemporanei – notavamo l’altro ieri – pubblicano, di norma, centinaia e centinaia di poesie in numerose raccolte, laddove Leopardi si è limitato a XLI liriche (compresi i Frammenti), in un solo libro. E cresce – aggiungiamo – a dismisura, in ogni contrada d’Italia, il numero dei poeti dilettanti o poeti della domenica o poeti provinciali o poeti cittadini o poeti di quartiere o poeti di associazioni locali o poeti di cerchie familiari: sono davvero innumerevoli –stando alle inchieste giornalistiche che se ne occupano – e scrivono decine di liriche al giorno, senza alcun ripensamento: molti di loro dichiarano di avere redatto un libro di poesie in meno di due mesi (il genio di Recanati impiegò vent’anni per comporre i suoi Canti). Non per nulla, un mio amico libraio ritiene che «in Italia, ci siano più scrittori che lettori».

Sia però chiaro: i poeti prolifici e sovrabbondanti non fanno male ad alcuno. Anzi, «melius abundare quam deficere», come dicevano i nostri antenati latini. Così va, d’altra parte, il mondo. E, poi, almeno un dato positivo si è pure intravisto, in tanta pletora: la fioritura, sia pure limitata, qua e là, anche in isolate sedi di provincia, di piccoli cenacoli di poesia, che mirano al miglioramento delle potenzialità dei partecipanti – la poesia non si insegna – lavorando seriamente sui testi di pochi grandi poeti.

Tuttavia, ci si chiede da cosa mai nasca l’eccesso oggettivo di poesie – di poesia non ce n’è mai troppa – che ci invade da qualche decennio.

Si pensa, in primis, alla vasta, salutare acculturazione della popolazione italiana a seguito soprattutto dell’avveduta politica scolastica dei primi governi di centrosinistra (che hanno portato le scuole, opportunamente, anche nei più sperduti paesi di montagna): l’abnorme proliferazione di poesie presso vasti strati popolari sarebbe, quindi, un effetto macroscopico – tutto sommato, benvenuto – della crescita culturale-scolastica della nazione.

Si fa pure riferimento, talvolta, all’enorme espansione della microeditoria provinciale, che vivacchia stampando (a pagamento) librini vari di poesie per un ridottissimo pubblico di lettori (familiari, amicali, comunque locali), senza curarsi più di tanto del valore effettivo dei testi. E si considera pure, tra le concause possibili del fenomeno, la diffusione a macchia d’olio, su tutto il territorio nazionale, di allettanti concorsi poetici, non sempre gestiti da persone competenti che sappiano far fronte contro meschini interessi economici e contro pressioni esterne di vario genere.

Ma non si può sottovalutare nemmeno il fatto che viviamo, quantomeno a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, nella società dello spettacolo e della comunicazione, quella descritta come «villaggio globale» da quel geniale antropologo che fu Marshall McLuhan: non è più importante cosa si comunica e come, cioè la qualità dei messaggi trasmessi o ricevuti, bensì la comunicazione in sé e per sé («Il mezzo è il messaggio», sempre Mc Luhan); donde, il trionfo di Whatsapp con i saluti viepiù sdolcinati, con gli auguri seriali, con le condoglianze e i necrologi più abusati, con le barzellette (non sempre divertenti), con la propaganda anche becera, con le fake news ecc. E con le poesie estemporanee (nate perfette per ispirazione divina!) o anche d’occasione (come in Arcadia).

Nella ricerca di cause e concause del fenomeno, si pone mente anche al fatto che, a partire dal 1916, cioè da quando il grande Giuseppe Ungaretti inaugurò, con Il porto sepolto, la poesia contemporanea, spazzando via – non se ne poteva più – la retorica, la metrica e la stilistica ottocentesca, è cambiato notevolmente il modo di comporre versi. Ma si direbbe che, per uno strano capovolgimento dei fini, la rivoluzione ungarettiana, per molti versi liberatoria, sia stata perlopiù banalizzata (dalle scuole talora e dalle masse) e che la ricerca della «poesia pura» e della «parola» sia diventata un lasciapassare per la comunicazione gratuita, in versi raffazzonati, di astruserie e/o di sentimenti (?), anche bolsi e ripetitivi. Certo, succede che anche un/a illetterato/a – digiuno/a di letture, di poesia, di conoscenze –, per il solo fatto di avere buttato quattro versi d’amore (?) sulla pagina, pensi di essere un poeta e venga recepito come poeta dai lettori di Facebook.

Si sono del tutto obliterate, invero, alcune precondizioni indispensabili alla nascita della poesia, e una in particolare: che non si può sperare di dire, in versi, qualcosa di nuovo che duri più di un mattino, se non si leggono spesso e volentieri i poeti (veri), se non ci si nutre anche di poesia, se si ha una ridotta competenza linguistica (la competenza linguistica è connessa con la lettura quotidiana di romanzi, saggi, giornali ecc.), se non si ha orecchio (per la musica e per il ritmo delle parole nei versi), se si ignorano le regole basilari della metrica e della stilistica. Se non si possiede, soprattutto, una nuova, personale, non ripetitiva, né banale “visione del mondo”.

Giungiamo, quindi, a una provvisoria, non risolutiva risposta (anche per non tediare troppo i volenterosi lettori): ci sono sufficienti motivi per ritenere che la poesia venga, oggi, intesa e praticata, almeno dai poeti dilettanti (ecc,), e con le dovute eccezioni, come una forma della comunicazione adulterata oramai dilagante: facile, diretta, banale, mimetica, alla fine pleonastica, se non del tutto inutile. Ma non chiamiamola poesia, per favore: magari gioco, scherzo o divertissement. La poesia è altrove.

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