Qualche giorno fa mi sono permesso di segnalare al caro collega e amico Antonio Di Grado un mio libro, in questi termini:

Mi corre l’obbligo di ricordare che miei saggi su “Horcynus Orca” sono in G. RANDO, Vero e immaginario tra Sicilia e Calabria, Editore Pellegrini, Cosenza 2014 (ma questo è un altro discorso: implica la mia riluttanza esplicita alla cosiddetta scuola restiana di Messina, che esercitò un assoluto potere “baronale”, per più di un trentennio, nei territori dell’italianistica […]). Ah!, condivido il giudizio di Steiner su “Horcynus Orca”.

Al che Antonio amichevolmente rispondeva:

Caro Giuseppe, grazie della preziosa integrazione. Il libro di D’Arrigo ovviamente lo lessi, ma non ho mai scritto in proposito: perciò ignoravo la bibliografia critica. Quanto a Resta, esercitò un indiscusso potere non solo a Messina, ma su tutta l’italianistica nazionale. Io stesso non sarei andato in cattedra senza il suo consenso.

Fui, perciò, spinto a ritornarci su, per amore di chiarezza e per la completezza dell’informazione:

Io ci sono andato – sia detto senza iattanza – nonostante il suo dissenso, grazie all’insistenza di Aldo Di Benedetto (che, nel 2000,  rilevò la «funzione innovativa» dei miei studi alfieriani), di Giuseppe Petronio (che, nel 1986, mi aveva inserito, con citazioni dirette, tra Ezio Raimondi e Vitilio Masiello, nella sua storia della critica alfieriana nel secondo Novecento) e di Giorgio Bàrberi Squarotti che aveva pubblicato nella sua collana, presso un famoso editore torinese, nel 1997, il mio saggio leopardiano “La norma e l’impeto. Studi sulla cultura e la poetica leopardiana” che recava, in Appendice, la prima e unica edizione critica dell’orazione “Agl’Italiani”. Venivo, peraltro, dalle barche dello Stretto e non dai salotti della borghesia accademica, imprenditoriale o politica di Messina, avevo la schiena dritta e il culto della ricerca scientifica. Perciò, aveva forse ragione, mio fratello, secondo cui «Giuseppe Rando [poareto!] faceva ombra ai conformisti».

Stamattina, infine, ho sentito il bisogno di comunicare all’amico Antonio Di Grado, in termini meno approssimativi, ma sempre sinteticamente, la mia singolarissima storia – forse, più unica che rara – di italianista apprezzato in Italia e all’estero (per i suoi saggi «innovativi»), ma tenuto a bagnomaria nella sua Università.

Vale forse la pena di ripubblicare l’ultima mia lettera ad Antonio Di Grado, quantomeno nella speranza che possa «[…] arditamente / uscir del bosco / e gir in fra la gente», come prova e documento di un disagio non solo personale: sarà, comunque, un testo non trascurabile per chi, prima o poi, farà la storia dell’italianistica, in Italia, tra la prima, la seconda e la terza (?) repubblica.

 

Caro Antonio,

riprendendo la mia aggiunta «senza iattanza» (e senza il prudente [?] commento di alcuno), mi pare giusto riproporre, in breve, a te, che stimo, la storia del mio rapporto con il satrapo messinese, quale è stata da me ricostruita, con garbo signorile – dicono – e con ampia documentazione, nel mio Resistere a Messina. Reportages, lettere, racconti e saggi critici, pubblicato da Luigi Pellegrini Editore nel 2020 che qualcuno delle tue parti ha salutato come un «capolavoro»): accanto alla mia non conformistica, «innovativa» maniera di leggere i testi letterari e al mio oggettivo superamento di antichi steccati tra prosa narrativa e prosa “scientifica”, traluce, in maniera incontrovertibile, l’ingiustizia che ho subito, nell’Italia perbenistica tra prima e seconda repubblica, col silenzio colpevole di molti maggiorenti del nostro settore (tranne Petronio, Spongano, Di Benedetto e Bàrberi), nonostante le mie civili, democratiche denunce.

Fu – devo dire, per semplificare al massimo – un fatto locale, ma tipico della cultura universitaria di quel periodo: il satrapo, di cui non ero mai stato allievo – provenendo dalle barche del Faro, dopo la laurea in Lettere classiche, col massimo dei voti e la lode accademica, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Messina, ero approdato nella locale Facoltà di Magistero, come assistente di ruolo, per concorso nazionale – , mi proponeva in maniera più o meno velata («Io apro sempre a chi bussa alla mia porta», testualmente) di passare nella sua “scuola” («corte di servallievi», per altri): in effetti, da satrapo dell’italianistica, peraltro ordinario, da trent’anni, di Letteratura Italiana (con «salto della quaglia» da Filologia medievale umanistica), non era riuscito a mettere in cattedra un allievo italianista – aveva portato all’associazione e all’ordinariato una nidiata di filologi umanistici – e aveva intravisto in me il possibile candidato, purché fossi (diventato) però suo allievo. In effetti, un italianista a Messina che non fosse allievo di G. R., avrebbe costituito, in all over the world, una diminutio capitis del satrapo stesso.

Io, avvertito, come tutti a Messina, dei riti baronali di quella “scuola”, e indocile, come uomo di mare, a ogni «servaggio», non bussai mai alla sua porta. Petronio mi spingeva, invero, a presentarmi, già negli anni Novanta del secolo scorso, al concorso a cattedra, ma il buon Paladino, all’epoca ordinario di Letteratura Italiana presso la Facoltà di Magistero (essendone io prof. associato), «devoto», come tutti o quasi, al satrapo, mi frenava, dicendomi di aspettare l’avallo di G. R: «Non si muove foglia se lui non voglia».  Alla fine, ruppi gli indugi e, con la mia ingenuità di studioso – avevo già pubblicato i miei, citatissimi, Tre saggi alfieriani, il mio Leopardi, il mio Alvaro e tanti altri saggi su maggiori e minori della letteratura italiana – mi presentai ad un concorso a cattedra, chiedendo, nelle more, aiuto al prof. Sipala dell’Università di Catania, che però mi rispose sconfortato (e sconfortante): «Il tuo non è tra i nomi indicati da G. R.». Il satrapo, tuttavia, nel primo concorso a cattedra del terzo millennio, finalmente si piegò, con vent’anni di ritardo (ma meglio tardi che mai). Erano caduti due ostacoli: era morto il suo collega, mio preside, suo irriducibile nemico, e qualcuno aveva bussato alla sua porta: costui, dopo dieci anni di «servizio», fu trasformato da contemporaneista in medievista e quindi portato in cattedra, ma fuorisede (per volere degli ex servallievi, neo baronelli): che mondo!

Per me, ci fu, comunque, una sorta di felpato silenzio nelle centrali dell’italianistica (succuba del satrapo) e sui miei saggi «innovativi» e su Resistere a Messina, che però si guadagnarono recensioni positive su molte riviste rinomate in Italia e all’estero.

Ti aggiungo ad abundantiam, per darti ulteriori informazioni sui miei libri, questa noterella che ho pubblicato su Facebook e nel mio blog (www.giusepperando.it) nel quale ti invito.

Giuseppe RANDO, De libris

Sono da un lato compiaciuto e dall’altro frastornato dalle richieste, che alcuni amici messinesi spesso mi fanno, di copie di miei libri o di informazioni editoriali sugli stessi.

Epperò, per evitarmi la fatica di ripetere, di volta in volta, le stesse cose, mi permetto di ricordare (una tantum!) a tutti che i due volumi di racconti di Edoardo Giacomo Boner (non Luigi Boer) nonché le due raccolte di novelle di Giovanni Alfredo Cesareo (altro messinese illustre, dimenticato) sono stati da me pubblicati presso l’editore Intilla di Messina e che sono, a quanto pare, esauriti.

Per restare in Sicilia, ricordo inoltre che i miei saggi pirandelliani sono raccolti nel mio volume intitolato La personalità del testo, pubblicato da Vecchiarelli Editore di Roma, e nel mio volume intitolato Verga Pirandello e altri siciliani pubblicato da Franco Angeli di Milano, laddove i due miei libri su Pascoli “messinese” sono usciti presso EDAS di Messina e presso le Edizioni Dell’Orso di Alessandria, mentre i miei saggi su Stefano D’Arrigo e altri scrittori e poeti messinesi sono stati  pubblicati su riviste, in vari volumi collettanei e in un mio libro (Vero e immaginario tra Sicilia e Calabria da Verga a Occhiato), edito da  Pellegrini Editore di Cosenza nel 2014.

Mi permetto anche di anticipare che una mia nuova edizione dei racconti di Boner è in corso di stampa presso l’editore Siciliano di Messina.

Rinviando, peraltro, tutti alla bibliografia completa  delle mie pubblicazioni, contenuta anche nel mio blog (www.giusepperando.it), mi limito a comunicare, in questa sede impropria, che: a) i miei libri su Alfieri sono stati pubblicati – e sono ancora reperibili –  presso Rubbettino Editore e presso  le Edizioni Dell’Orso; b) i miei volumi su Leopardi sono usciti presso Tirrenia Stampatori di Torino e presso Aracne di Roma; c) i miei libri su Alvaro sono stati pubblicati da Falzea Editore  e da Rubbettino Editore; d) i miei libri su Enrico Onufrio sono stati editi da EDAS di Messina.

È una fastidiosa (benché accorciata) lista: speriamo che serva.

Certo, se ci fosse mai stata una vera scuola di italianistica a Messina (mi sono dovuto andare cercare i maestri “in continente” o tra le pagine migliori della critica letteraria) o se mediocri, ma potentissimi, baroni non avessero ostacolato la mia effettiva – accreditata in Italia e all’estero – scuola di critica e filologia moderna (a danno soprattutto dei miei allievi inutilmente abilitati alla docenza universitaria), i miei libri sarebbero, forse, più  conosciuti in loco e, comunque, non sarebbero affatto necessarie tali, barbose – per me che sono costretto a redigerle e per chi voglia leggerle – liste.

«Così va [… ] il mondo» accademico messinese, oggettivamente attardato (nonostante qualche timido tentativo di accelerazione) su arcaiche posizioni familistiche e/o baronali. Forse, cambierà tra qualche secolo: la storia, purtroppo, non fa salti e, casomai, li fa all’indietro. Certo, io non ho potuto fare di più. Ma resisto.

Cordialmente

Giuseppe

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