Molti oggi – spesso improvvisati storici e/o antropologi – parlano e scrivono di Torre Faro, che è salito, all’improvviso, alla ribalta della cronaca, dopo avere patito decenni di silenzio da parte degli amministratori locali e degli stessi cittadini messinesi: meglio tardi che mai, d’altra parte.

Pochi sanno, invece, che quello splendido sito ha già affascinato, nell’ultimo Ottocento, due grandi scrittori messinesi, Edoardo Giacomo Boner e Giovanni Alfredo Cesareo, che, sicuramente, altra fama avrebbero avuto se fossero nati e vissuti in un’altra città: essi hanno molto da insegnare, ancora oggi, a tutti (e ai messinesi in particolare) sulla portata di quella che oserei definire cultura cariddota.  Vale forse la pena di ri-segnalarli ai messinesi distratti, partendo magari da Cesareo. Andiamo.

 

Giovanni Alfredo Cesareo ha illustrato la città di Messina (dove nacque nel 1860), con la sua molteplice attività letteraria (esercitata nella poesia, oltre che nella narrativa e nel teatro), con la professione di valente professore ordinario di Letteratura italiana presso l’Università di Palermo (dove morì nel 1937) e con l’impegno instancabile di apprezzato critico letterario, nonché serio giornalista.

È certamente un intellettuale lucido, mercuriale, segnato dalla mutabilità che fu propria del suo tempo di crisi e di trapasso, avendone attraversato tutti gli eventi epocali: il trionfo e il rapido declino del positivismo-verismo, l’affermazione del neoidealismo, le riforme giolittiane, l’avventura coloniale, la prima guerra mondiale, il tragico dopoguerra, l’avvento e il consolidamento della dittatura fascista.

Pubblicò peraltro due interessanti raccolte di novelle: Avventure eroiche e galanti, Leggende e fantasie.[1]

La raccolta di Avventure eroiche e galanti, pubblicata a Torino nel 1887, è costituita da quattordici novelle, di cui tredici amorose e una, l’undicesima (La bandiera), di taglio storico-epico: vi prevale l’allure estetizzante – diciamo dannunziana – di stampo anti o postveristico.

Di gran lunga più interessante si rivela la seconda raccolta, Leggende e fantasie, pubblicata a Roma nel 1893, in cui pare di cogliere, una certa inclinazione dello scrittore verso la cultura marinaresca del villaggio costiero di Torre Faro (la Cariddi del mito), dacché il primo (La leggenda del Faro) e l’ultimo degli undici racconti (La leggenda della città di Risa) in quel sito incantevole, unico invero al mondo (se l’appartenenza non m’inganna), sono ambientati: non può essere, invero, un caso – il caso non esiste in letteratura – che un libro si apra e si chiuda nello stesso luogo. E viene fatto di pensare che l’autore abbia percepito il microcosmo allocato su quella sottile lingua di passero protesa su due mari come possibile emblema di una Sicilia fragile e forte, acquatica e terragna, leggendaria, e, perciò, fors’anche, esportabile.

Tutto il bene e tutto il male della raccolta è patente, ad ogni modo, nel racconto di apertura, La leggenda del Faro, appunto, cioè la famosa leggenda di Cola Pesce, la quale incomincia, dopo molto spreco descrittivo, con il tradizionale C’era una volta delle favole, articolandosi in due macrosequnze logico-temporali, che si pongono come due quadri successivi della stessa storia: I) giunge a Messina re Federigo con sua altera figliola, la quale lancia nelle acque dello Stretto una coppa, invitando baroni e vassalli a recuperarla; la coppa viene invece coraggiosamente ripescata da Cola Pesce, che innamora di sé la fredda principessa, godendone le grazie; II) la principessa lancia in mare il suo anello annunciando che sposerà colui che riuscirà a recuperarlo; Cola Pesce si tuffa per cercare l’anello negli abissi dello Stretto, ma non riemerge più.

L’incipit della novella disegna, ad ogni modo, con qualche indugio formalistico, la particolare bellezza del luogo, che Cesareo conosceva bene:

 

Sulla costa orientale della Sicilia cala rosso il tramonto. La barca fila leggera sul mare liscio e piano, dove trema s’allunga una striscia vermiglia di luce; mentre i gabbiani errano silenziosi a volo intorno le navi immobili e nere, che ingombrano l’orizzonte solenne […]. Nuvole d’un color caldo di porpora, che a mano a mano s’avviva d’un baglio d’oro, salgono sul canale verso il cielo ampio e luminoso. Il tramonto è una festa.

Il racconto che chiude la raccolta, La leggenda della città di Risa, sembra voler condensare  il messaggio finale del libro: le leggende sono solo leggende, ma non è detto che non alludano a qualcosa che potrebbe anche rivelarsi reale: più reale, forse, della realtà. Il narratore veste qui i panni del narratore interno protagonista (intradiegetico), che racconta, in prima persona, il viaggio intrapreso da lui e da suoi tre amici (un ingegnere, una garbata signora e un professore di storia), in un pomeriggio d’estate, per andare a prendere l’ultimo bagno della giornata nella città di Risa, che nessuno dei tre sa esattamente dove sia: si avviano dalla Grotta, cioè l’antico tempio di Nettuno trasformato in chiesa cristiana (nel villaggio di Pace), procedendo verso Nord, lungo la Riviera del Faro, per una strada in terra battuta che passa tra i giardini del lato mare, e gli ulivi del lato monte. S’imbattono, quindi, nel primo angelo-guida: «una bambina di tredici anni all’incirca, bruna, co’ capelli arruffati su la fronte, col seno piccolo e acerbo, del bel color d’oro de’ datteri, tra le pieghe dell’errante camicia» e con «occhi fissi, larghi, sfavillanti», come «due soli neri»: una vera epifania. E si noti come il narratore-protagonista-testimone espliciti, in questo frangente, se ce ne fosse bisogno, la sua dimensione di sensale letterario, ponendosi chiaramente a metà strada tra il mondo popolare siciliano e quello dei lettori “continentali”, ai quali, difatti, comunica che i siciliani (non lui), per definire gli occhi della bambina tredicenne, «dicono con una di quelle loro immagini efficaci e violente: occhi che mangian la faccia»: era, forse, questo l’unico modo che la sua poetica e la sua ideologia gli consentivano per recuperare le «immagini efficaci e violente» del dialetto, caro agli aborriti scrittori veristi.

Seguendo l’indicazione della «bambina», i quattro amici attraversano un villaggio marinaresco («un mucchio di case sul mare» ), dove hanno modo di osservare «un bastimento riverso […] con la prora eretta nell’aria, caduto sur un fianco», vicino alla spiaggia (forse il vapuri naufragato di fronte dell’attuale Piazzetta dell’Angelo di Torre Faro, di cui restava, in quel bellissimo tratto di mare, qualche scabro relitto fino a qualche decennio addietro), nonché nitidi scampoli di vita popolare, altrimenti perduti:

 

Innanzi alla soglia delle capanne, le donne raccomodavan le nasse; le ragazze accendevano il fuoco, per la minestra, in mezzo alla strada; i bimbi di quattro o cinque anni, ignudi nati, bruni come di rame, s’inseguivano barcollando e ruzzavano; i vecchi pescatori, in camicia bianca o cilestra, con le mani nelle tasche, cianciavano a gruppi guardando il tramonto, e fumavano.

 

Di fronte a tanta semplicità di costumi, che sembra riecheggiare la «pace serena» dei pescatori verghiani di Fantasticheria, il narratore rileva l’alterità sua e dei suoi compagni («tisici», «bambini invecchiati»), lasciandosi prendere da un moto di commozione e da un subdolo senso di colpa: egli ha praticamente rinnegato gli insegnamenti che ha ricevuto, in quel villaggio, da bambino, da quei pescatori, i quali ora gli lanciano dietro «occhiate bieche e irose, come a un traditore». Ma la «falsa coscienza» dell’intellettuale borghese, che sensale era divenuto, ricompone facilmente il momentaneo cedimento: «La colpa non fu tutta mia. […]; bisognò, purtroppo! che imparassi a leggere anch’io».

I quattro viaggiatori giungono quindi ai «due pantani, occhi del Faro», e al più grande dei due, in specie, dove «cefali argentei saltellano e guizzano a fior dell’acqua», mentre «pescatori curvi […], con le gambe ignude nell’acqua, cercano le telline». Uno di quei pescatori – il secondo angelo-guida – comunica loro che sono arrivati, che la città di Risa è proprio là, «sott’acqua».

Il narratore-protagonista viene intanto colpito da un canto di donna che si leva, «triste e soave», dalla parte de campi, rimemorando, quindi, la leggenda del soldato tedesco che, avendo sentito un canto proveniente dalla riva opposta del Reno, dov’era il suo paese (con la birra e le bionde ragazze che amava), attraversa il fiume per ritornarvi, ma viene scoperto e fucilato come traditore. Dopo un excursus sulla fascinazione del canto e la trascrizione, nel nudo dialetto messinesse – unicum, nella raccolta -, del canto che aveva appena sentito, il narratore lascia che la Fata Morgana, indossati i panni del narratore di secondo grado, racconti la sua «storia di dolore e d’amore» (saffico!) per Mariselva, la contessa di Risa. Fu la stessa fata Morgana ad intimare ai suoi pesci di recare sott’acqua la città dove la contessa viveva, sperando (inutilmente) di svegliarla dal sonno in cui era piombata, quando si era accorta di essere stata rapita da lei: la contessa dorme ancora oggi, nella città sottomarina che, quando il cielo è chiaro, appare al navigante come Fata Morgana (ma il fenomeno suddetto si vede nelle acque dello Stretto e non già nelle acque del «pantano» del Faro).

Il narratore-protagonista, inavvertito del piccolo errore, registra, nell’ultima sequenza logico-temporale del racconto, le inutili ricerche sue e dei suoi tre compagni di cordata: tuffatisi nelle acque del «pantano», per vedere Mariselva dormente nella sua città subacquea, non trovano nulla: la signora scambia addirittura una ciabatta rotta per una moneta antica, sicché l’ingegnere – al pari del lettore e del narratore – la canzona «discretamente».

Ma l’irrazionale è in agguato: «d’improvviso, un suon di campane […] salì dalle solitudini profonde del lago»; i quattro amici ne furono disorientati (allucinazione o realtà?); il pescatore s’inginocchiò cavandosi di testa il berretto e il narratore-testimone sentì «invisibili spiriti errare nell’aria e sulle acque».

[1] Le due raccolte sono state ripubblicate da chi scrive nel 2008, a Messina, presso l’editore Michele Intilla.

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